Ricordo di Giovanni Comisso

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«Lo stile è vivere e ricordare»

di Diego Zandel

 

Conservo un paio di lettere di Giovanni Comisso. Risalgono a ben oltre trent’anni fa. Me le scrisse in risposta ad alcune mie domande, di giovane aspirante scrittore, sull’arte dello scrivere.

«Lo stile è vivere e ricordare» mi rispose Comisso, e in fondo alla lettera, mi dava come post scriptum un altro consiglio: «Leggi La mia casa di campagna».

Si trattava di un suo libro scritto originariamente nel 1958, e che dieci anni più tardi l’autore avrebbe «accresciuto» in occasione della pubblicazione presso Longanesi di una collana interamente dedicata alla sua opera definitiva.

Come molti libri di Comisso, anche La mia casa di campagna era risolto in quella chiave lirico-autobiografica che costituiva la sua vena più autentica. In esso egli raccontava di quando nel settembre del 1930 comprò dagli eredi di un pittore, in località Conche di Zero Branco vicino a Treviso, una campagna di sette ettari e mezzo, una casa colonica che vi faceva parte, e di quanto egli fece per riadattare la prima alle esigenze di un proficuo raccolto e la seconda a quelle dell’abitazione.

Comisso si trasferì in quell’angolo di mondo con la madre e la fedele fantesca Giovanna e ci visse, tra un viaggio e l’altro della sua vita errabonda, fino al 1951, anno in cui morì la madre. D’allora sentì il bisogno di andarsene da quel posto. «Ormai la mia casa di campagna era diventata una casa dove si poteva morire e soffrire come in tutte le altre – leggiamo – e aveva finito per dare ombra soltanto ai miei dolori». Così, Comisso vendette tutto, terra e casa, e con il ricavato acquistò in un’altra zona vicino a Treviso, Santa Maria del Rovere, un terreno sul quale costruì una nuova casa, da lui ideata secondo uno stile che aveva appreso in uno dei suoi viaggi in Cina: con la porta e le finestre rivolte dalla parte opposta della strada per impedire alla polvere di entrare.

Davanti si era lasciato un piccolo orto al quale lo scrittore, quando non aveva da fare, scendeva per prenderne cura. «Mi sporco ancora le mani di terra nello strappare la gramigna e nel recidere i pomodori, ancora mi affatico a vangare e allora capisco che il mio destino è di non potermi liberare dalla terra». È la battuta con la quale La mia casa di campagna si conclude, e che da un senso a tutto ciò che il libro ha rappresentato: il rapporto tenace dello scrittore veneto con la terra, il legame di gioie e fatiche, di amori e dolori, sul cui filo le pagine di questo libro si sono esemplarmente sviluppate. E appare allora chiaro il valore del suo suggerimento di leggerlo a un giovane desideroso di una lezione di stile.

 

Il mio rapporto epistolare con Comisso d’allora continuò. In una lettera successiva lo scrittore si lamentava della sua solitudine. «Ah, almeno tu venissi a Treviso!» trovai scritto.

E un giorno del dicembre 1968, in viaggio verso la mia città d’origine, Fiume (un nome che ci legava, perché lui c’era stato legionario con D’Annunzio), decisi di far tappa a Treviso.

Ebbi qualche difficoltà a trovare la casa di Comisso, ma poi mi fu finalmente indicata. Da via Santa Maria del Rovere si deviava per una strada bianca, di campagna. C’erano diverse casette, ma riconobbi subito quella di Comisso per la particolarità del muro retrostante rivolto alla strada. Feci il giro della casa. Ai margini dell’orto che aveva davanti vidi due vecchie contadine, il grembiule e il fazzoletto in testa, che chiacchieravano. Mi avvicinai ad esse. «È questa la casa di Giovanni Comisso, lo scrittore?» chiesi. La conferma giunse immediata, data quasi con esuberanza, soprattutto dalla più vecchia delle due, che intuii subito essere la fedele fantesca Giovanna. In dialetto veneto molto stretto e che faticai un po’ a decifrare, mi informò che lo scrittore stava molto male e si trovava all’ospedale, a Treviso. Mi mostrai costernato. Ero sinceramente dispiaciuto per la malattia del Maestro, però anche deluso per quella mia visita andata a vuoto. Ma Giovanna mi suggerì: «Lo vada a trovare in ospedale, gli farà tanto piacere». Ero indeciso. Obiettai: «Non crede che lo possa disturbare?». «Ma no!» esclamò con forza la vecchia fantesca. E di sua iniziativa aggiunse: «Chiameremo un taxi».

Giovanna salutò l’amica e mi spinse dentro casa. Sul piccolo ingresso si affacciavano alcune porte. Giovanna mi indicò la prima a sinistra. Si trattava della cucina. La trovai arredata molto semplicemente, direi quasi poveramente, come tante altre case di contadini: un tavolo al centro, ricoperto di una tovaglia di incerata a quadretti, una vecchia credenza di legno, come andavano una volta… Sulla parete, accanto alla porta, dove me ne stavo in piedi, un po’ a disagio, c’era un calendario di tipo olandese, con ai bordi stampigliati motti faceti e delle ricette di cucina popolare, omaggio di una trattoria locale. Vi notai alcune annotazioni nella svolazzante scrittura di Comisso. Intanto Giovanna chiamava il taxi. Quando ebbe finito mi venne a fare compagnia. Mi avvertì che l’auto sarebbe arrivata a momenti. Chiesi se, nel frattempo, potevo vedere lo studio del Maestro. «Eh, el xe serà» disse Giovanna «Il segretario ha chiuso la porta a chiave perché ci sono tanti quadri di valore. Non mi ha lasciato nemmeno la chiave quello là» aggiunse con disappunto. Annuii. La vecchia governante, abituata a muoversi da sempre liberamente per la casa, si sentiva defraudata di quel suo potere al punto di sentirsi umiliata.

Arrivò il taxi, salutai Giovanna e raggiunsi l’ospedale di Treviso.

Trovai Giovanni Comisso al primo piano, in una grande stanza tutta per lui. Gli sedeva vicino, con un libro in mano, la figlia adottiva. Lo scrittore era disteso su un letto posto sotto la finestra. Immagino l’avesse chiesto lui stesso per guardare fuori, anche se, da quella posizione, poteva vedere solo il cielo. Mi resi subito conto della situazione. Gli era stata praticata una tracheotomia che, per il momento, lo condannava alla immobilità postoperatoria e al silenzio. Una garza gli copriva il collo. Il viso era pallido e smunto, assai diverso dai lineamenti rubicondi delle fotografie sui giornali. Sopra gli occhi, particolarmente vivi, quasi accesi risaltavano le folte sopracciglia nere, che contrastavano con il candore degli ormai radi capelli. Mi presentai, e Comisso mostrò, con un lampo degli occhi, di ricordarsi di me, delle nostre lettere. Gli presi una mano e la strinsi nella mia. Lo tenni così per tutto il tempo che mi fermai lì.

«Sono di passaggio» gli dissi «Ora vado a Fiume». Sulla mia città Comisso aveva scritto un bel libro Il porto dell’amore e diverse indimenticabili pagine erano sparse in altre sue testimonianze del periodo in cui, giovanissimo, era legionario a Fiume. Ma leggendo sul volto del vecchio maestro la sofferenza per quella sua condizione, non seppi più cosa altro aggiungere. Rimanemmo così a guardarci, senza parole, mano nella mano, per alcuni lunghi minuti. Quando pensai che fosse giunto il momento di andarmene gli feci sapere: «Tornerò». Lo vidi annuire, abbozzare un sorriso. Mi staccai da lui e mi avvicinai alla figlia. Le dissi «Mi faccia sapere quando starà meglio». Le consegnai il mio indirizzo. Ma non dovetti mai ricevere quella comunicazione. Poco più di un mese dopo 21 gennaio 1969, apprendevo dalla radio che Giovanni Comisso era morto.