Robert Doisneau, fotografie di un tempo perduto

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«Una fotografia che non fa pensare non merita affatto di essere Fotografia»

di Paolo Cartagine

 

Guardando una mostra fotografica è affascinante compiere, senza piani precisi, un viaggio alla ricerca dell’autore, sapendo che la meta è sempre un po’ più in là di dove arriveremo.

È così anche per Across the Century, esposizione al “Magazzino delle Idee” a Trieste fino al 23 giugno 2019 di 88 stampe vintage bianco/nero – promossa dall’ERPAC FVG in collaborazione con diChroma Photography di Madrid – selezionate dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau, che conserva le opere di uno dei maggiori autori della Storia della Fotografia.

Le figlie Francine e Annette, dopo la morte di Doisneau nel ’94, rinvennero in un baule foto da lui accorpate (un compendio del suo intero lavoro dal 1929 all’87) da cui sono tratte le immagini esposte a Trieste, qui accompagnate da testi e da un film sull’autore.

Nato nel 1912 a Gentilly nel Sud di Parigi, Doisneau aveva avuto un’infanzia difficile. Bravo grafico dopo il diploma in litografia, nel ’29 si era avvicinato alla fotografia pubblicitaria e a quella industriale. Durante la guerra militò nella Resistenza sfruttando l’abilità di incisore per falsificare documenti. Nel ’45 alcuni reportage per Vogue e poi – a fianco dell’attività fotografica autonoma – il lavoro per l’Agenzia Rapho: “Ho mandato avanti la mia famiglia e acquistato l’appartamento grazie alla pubblicità di biscotti e lubrificanti” soleva dire restando con i piedi per terra lontano dal divismo dei riconoscimenti internazionali.

Nel ’49 era uscito il suo primo libro fotografico La Banlieue de Paris con testi di Blaise Cendrars, pietra miliare dei racconti per immagini. Senza compiacimenti estetici o ammiccamenti pseudo-ideologici affrontava, in maniera sommessa ma decisa, le complesse questioni sociali delle periferie in un periodo teso al raggiungimento del benessere economico.

Amico fra gli altri di Prévert, Picasso, Brassaï e Cartier-Bresson, pubblicò molti libri tra cui l’imperdibile autobiografia À l’Imperfait de l’Objectif del 1989. Un inizio eccellente: i reportage su Life, US Camera e France Magazine, il Prix Nièpce nel ’56, le mostre al MoMA di New York nel ’51, The Family of Man ideata nel ’55 da Edward Steichen e Subjektive Fotografie di Otto Steinert, a cui seguirà un numero sterminato di mostre in tutto il mondo.

Fu con Cartier-Bresson tra i fondatori del fotogiornalismo di strada. In un’intervista così si espresse: “Desideravo mostrare un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere… Ho sempre avuto una straordinaria voglia di vedere, di vivere e allora devo andare a fotografare.” Al contempo era uno spirito critico razionalmente disobbediente perché rifuggiva le verità preconfezionate, e ciò ce lo fa amare ancor di più.

Scrittore ai sali d’argento con pellicole e carte in camera oscura, Doisneau si definiva “pescatore di immagini”. Un po’ come Ota Pavel, il praghese scrittore d’inchiostro di Come ho incontrato i pesci: pesca hobbistica come scuola di pazienza per apprendere il senso del tempo immergendosi nella situazione del momento quale metafora della vita. Entrambi narratori del “meraviglioso quotidiano”, di ciò che è straordinario (e che va salvato) nell’ordinario scorrere del nostro tempo che, pur costantemente davanti a noi, ci sfugge e che dimentichiamo per l’apparente ripetitività e insignificanza.

Tratti comuni con Bohumil Hrabal, che con ironia sosteneva: “Non sono uno scrittore, sono un trascrittore perché tutto è già pronto davanti a noi. Basta guardare.”

Instancabile girovago e talento inaffondabile, Doisneau – timido da ragazzo, diventato un adulto riservato ma tessitore di relazioni umane intense e durature – era attento a cogliere le vicende della “commedia umana” per raccontare storie puntando sulla verosimiglianza dello scatto diretto e contestualizzato senza alterazioni.

Al “Magazzino delle Idee” le immagini esposte narrano alti e bassi della vita tra le gente comune nella Parigi attorno alla seconda metà del ‘900: non la storia con la maiuscola, ma minuscole storie quotidiane che singolarmente e nel loro insieme formavano la vita di comunità e di luoghi in anni ormai cancellati dai cambiamenti della modernità.

Dunque un umanista dotato di empatia, votato al dialogo ben prima di pensare a fotografare (senza invadere e rispettando tutto e tutti) per condensare nel rettangolo dentro-fuori dell’inquadratura l’anima delle cose concrete, desideri e aspettative, rapporti interpersonali e ambienti, sguardi e atteggiamenti, proposti con apparente nonchalance a testimoniare la bellezza dell’esserci con dignità. Un modo di guardare e di considerare il mondo, forse oggi non più di moda nell’alluvione di immagini da consumare prima della loro obsolescenza.

Rolleiflex 6×6 e Leica 35 mm: Doisneau fotografava da vicino per far sentire noi lettori accanto ai suoi protagonisti, gettare un ponte fra autore-soggetto-pubblico. Gente qualunque e gente del bel mondo, operai della cintura industriale, ragazzi e scolari, autoritratti e ritratti costituiscono un’immensa galleria costruita in sessant’anni di sistematico lavorare con ricchezza tematica e diversità operativa, nella ricerca di semplicità e immediatezza. Non sono molti i fotografi che possono vantare nel loro archivio simili positive caratteristiche che, oggi, sono occasioni per riflettere sulla continuità nel tempo della memoria-ricordo non celebrativa ma indagatrice della condizione umana.

Emblema dell’ambiguità intrinseca dello statuto della fotografia, Le Baiser de l’Hôtel de Ville è la sua foto più famosa scattata nel ’50 con la partecipazione dei due protagonisti, tuttora oggetto di dibattito estetico-comunicativo e sul diritto all’immagine.

Dagli anni ’80 Doisneau gode di una rinnovata attenzione, tuttora in ascesa. Infatti le sue fotografie continuano a essere richieste per esposizioni, una popolarità in espansione anche fra i non addetti ai lavori con talune immagini divenute icone della Fotografia.

A ben guardare, attingendo a più registri espressivi funzionali al “cosa” rappresentare e al messaggio da veicolare, sottraendosi ai confini dell’attimo che passa, dell’umorismo, della tenerezza e della complicità autore-soggetto, Doisneau ci ha lasciato una visione più ampia, articolata e complessa di quanto sembri.

Le sue immagini sono per noi iniziali punti interrogativi e sollecitazioni di curiosità propositive affinché, esplorandole, non rimaniamo solo spettatori di superficie ma diventiamo osservatori di profondità, nel solco di Hannah Arendt quando diceva che “Una fotografia che non fa pensare non merita affatto di essere Fotografia”.