Play Strindberg la stagione decolla

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un’opera esemplare drammaturgicamente, un pezzo di bravura che permette agli attori di dare il meglio di sé

di Adriana Medeot

 

Lo spettacolo d’esordio della stagione teatrale 2016-2017 del Rossetti propone – anzi ripropone, ché già nel cartellone dell’anno scorso era presente con Scandalo di Arthur Schnitzler – una riflessione su un tema forte, sempre attuale e d’inevitabile impatto emotivo: la famiglia e le dinamiche che si svolgono al suo interno. Tema caro al direttore artistico Franco Però, che firma la regia di Play Strindberg, in scena dal 25 al 30 ottobre nella sala Assicurazioni Generali.

Il testo è il libero adattamento di Friedrich Dürrenmatt, andato in scena nel 1969, del dramma Danza della Morte (o Danza macabra) di August Strindberg (1900), che lo scrittore svizzero seppe rivisitare con lo sguardo intransigente e caustico che gli era proprio, creando un’opera dall’architettura brechtiana, un percorso per stazioni, con sviluppi non solo narrativi ma anche dimostrativi, scanditi da un linguaggio asciutto e scarno, ma di straordinaria efficacia.

Non c’è magia, non c’è trucco teatrale. Sul palcoscenico è allestito un ring di pugilato, illuminato da una luce bianca e glaciale. I pochi elementi scenici presenti contrastano, stridono: un pianoforte, mobili fin de siècle di buona fattura, costruiti per rendere calde e accoglienti le abitazioni della borghesia, che sembrano disorientati ed estranei al contesto. All’interno di questa situazione si muovono i protagonisti. Alice ed Edgard, sposati da più di venticinque anni, stanno attendendo l’ora di cena insieme, in salotto, punzecchiandosi e rivangando antichi torti e nuove frustrazioni. Il loro rapporto regge – a malapena – sull’abitudine e sul battibecco, sulle ripicche e sulle disillusioni, delle quali reciprocamente s’incolpano. La situazione iniziale, nonostante tutto, è stabile, consolidata. Rappresenta quel piccolo inferno quotidiano a cui molte coppie sono avvezze, ma da cui non intendono uscire, vuoi per paura della solitudine, dell’ignoto, o forse perché amare e odiare sono due facce della stessa medaglia.

Alice rimprovera a Edgard di vivere segregata sull’isola in cui lui presta servizio militare, priva di divertimenti e di distrazioni, lo incolpa inoltre di aver rinunciato alla sua carriera di attrice per sposarlo. Lui, pur insoddisfatto, non rinuncia al ruolo di pater familias, responsabile e virile, e denigra il facile successo di coloro i quali sono riusciti a raggiungerlo, come i suoi ricchi vicini, che per ottenerlo non hanno rispettato i crismi di una condotta etica. Edgard pontifica, Alice è delusa e annoiata, sogna di poter partecipare alle feste che danno i ricchi vicini.

L’equilibrio, seppur precario, si rompe con l’arrivo di Kurt, cugino e antico amore di Alice, ricco e famoso, che risveglia la femminilità sopita della donna. Meccanismo perfetto per liberare l’inferno: in una diade precaria, il terzo agisce da elemento scatenante. Così accadeva in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee (1962), testo impareggiabile, nel quale i risentimenti e le frustrazioni di una coppia riuscivano ad esprimersi, in modo violento e lacerante, soltanto in presenza di altri. Inoltre, il denaro e il successo sociale non raggiunto costituiscono argomento di enorme conflitto tra i due coniugi, Alice infatti s’interessa a Kurt anche perché rappresenta il benessere borghese.

Dürrenmatt rimaneggia il testo di Strindberg, quasi settant’anni dopo, e lo rende più idoneo a una rappresentazione contemporanea. Se per l’autore scandinavo il tema del conflitto tra i sessi, non immune da derive antifemministe, era cruciale – siamo nel 1900 e l’influenza di Nietzsche è palese -, Dürrenmatt calca la mano sulla critica alla società borghese dedita al profitto, tema sessantottino, a cui aggiunge l’intransigenza dell’esser figlio di un pastore luterano e il forte senso della giustizia, che contraddistingue tutta la sua produzione. Nonostante ciò le sue opere, che siano romanzi o commedie, pur pervase da un’insanabile pessimismo teologico, sono animate dal sottile piacere della satira e della parodia. Insomma, fanno riflettere ma anche ridere.

Infatti, dopo una prima parte un po’lenta e a tratti noiosa, il meccanismo teatrale parte e diventa divertente, coinvolgente e interessante. In undici cruenti round di boxe, scanditi dal gong, la lotta tra Edgard e Alice assume connotazioni violente e grottesche, in un crescendo di situazioni che li vedono di volta in volta “alle corde”, con uno scambio di battute crudeli e divertenti insieme. Si ride di sé, di un vissuto simile, si riflette. Il suono del gong, a ogni ripresa, ferma l’azione degli attori, che rimangono immobili, oggetti senza vita di un quadro. L’assenza di azione suggella il pensiero su ciò che è accaduto: è Brecht, ma va bene, anzi benissimo, in un momento storico in cui non ci si ferma mai. Fermarsi, anche per un attimo, attendere, godere dell’attesa è impagabile.

Tra velenosi anatemi: “Muori, una buona volta, boiardo miserabile”, esclama Alice a suo marito, violenti litigi, cinici tradimenti d’anima e di sentimenti, la vicenda si conclude con un nuovo equilibrio, diverso, ma altrettanto stabile. Kurt, nonostante la sua ricchezza e la sua gentilezza, si è rivelato un malfattore, Edgard n’è uscito malconcio, ma vivo: dopo un infarto, vegeta su una poltrona accudito da Alice, che non può vivere con lui, ma neanche senza di lui.

Il testo è del 1969, ma l’argomento è ancora attuale, infatti lo spettacolo funziona. Alla prima del 25 ottobre il pubblico applaude, convinto e caloroso. A Franco Però va il merito non solo di un’ottima regia, ma anche di aver scelto un’opera esemplare drammaturgicamente, un pezzo di bravura che permette agli attori di dare il meglio di sé. E il meglio di sé hanno dato gli interpreti: è stata splendida la performance di Maria Paiato nel ruolo di Alice, bravi e più che convincenti Franco Castellano (Edgar) e Maurizio Donadoni (Kurt).

Belle ed efficaci le scene di Antonio Fiorentino e i costumi di Andrea Viotti, così come le luci di Luca Bronzo e le musiche di Antonio Di Pofi.