Scompare il capostipite dei curatori d’arte,Germano Celant

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di Enzo Santese

A 80 anni ha ceduto alla furia pandemica anche Germano Celant, uno dei più stimati critici e curatori d’arte del mondo. È vivo il ricordo del primo incontro che è stato l’incipit di una conoscenza lunga e cordiale, alimentata da numerose altre occasioni: era il ’93 nello studio del comune amico Concetto Pozzati, allora tra gli artisti più in vista della cosiddetta “nuova figurazione” con il quale preparavo la rassegna di Palazzo Frisacco a Tolmezzo e alla Galleria “Artesegno” di Udine.

Ancora prima della ventata del ’68 la sua azione creò sconquasso nel panorama dell’arte non solo italiana. Uno dei meriti di Celant è di essere uscito dalle strettoie della provincia e aver intercettato le luci di orizzonti più ampi che lo hanno portato presto negli Stati Uniti, dove ha raccolto gli iniziali consensi per un’ascesa ai vertici della critica mondiale. Non era visto dai colleghi con grande simpatia, un po’ perché per carattere non aveva quell’afflato spontaneo e istintivo all’incontro e abbandono alla logica di una socievolezza solidale, e poi perché nell’ambito dell’arte – quella che conta – il critico è per sua definizione un solitario che lancia messaggi a destinatari precisi, escludendo nella maggior parte dei casi le possibilità di collaborazioni, assistenze laterali (semmai gregarie!), con occhio attento a possibili ritorni economici; da questo punto di vista gli interessi sono grandissimi e direttamente proporzionali alle invidie e agli appetiti che suscitano. E Celant per i meriti cospicui che ha saputo esprimere, spesso si è trovato nei luoghi e nei tempi giusti per cogliere successo, fama e, quindi, denaro. Il decollo inizia nel novembre 1967, quando sulle pagine della rivista Flash Art pubblica Appunti per una guerriglia, che ebbe ricadute in vari decenni seguenti della ricerca artistica; praticando quella strategia che alcuni detrattori hanno definito “fedeltà all’incoerenza” sulla base di un’impalcatura strategica che si modifica ogni volta adattandosi alle condizioni strutturali degli eventi (questo peraltro è uno dei pregi più consistenti). La sua capacità di sintesi riesce a mantenere “in squadra” personalità con pochi punti di contatto sul piano anagrafico, formativo e stilistico, eppur attratte dalla sua riflessione sui “doveri” dell’artista: seguire il filo di una ricerca nata da “un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente” e imperniata sul valore di un’umanità più vicina alla natura e pronta a cogliere le energie da far confluire in una sottolineatura della semplicità. Il tutto si innesta in un momento in cui la spinta consumistica è davvero prepotente e cominciano a farsi sentire i primi segni di uno smarrimento identitario. Nel suo manifesto dell’Arte Povera l’esordio recita in maniera perentoria: “Prima viene l’uomo, poi il sistema, anticamente era così”. Non si può negare che sia stato invece il padrone quasi assoluto del sistema dell’arte italiano e sul piano internazionale una delle tre entità della triade dominante, assieme ad Harald Szeemann, di cui è stato assistente in varie circostanze, e Jan Hoet, storico d’arte belga, direttore per molti anni dello Stedelijk Museum di Gent. D’altro canto il suo ruolino curricolare è costellato da incarichi di assoluta eccellenza, che hanno ingigantito intorno a lui quell’alone carismatico soprattutto all’estero, facendone una sorta di santone attento alle emissioni più aggiornate della ricerca; nei suoi taccuini, riempiti con regolarità addirittura maniacale, privilegiava molte volte gli spunti della relazione tra l’uomo e l’ambiente, del nesso tra il dato estetico e quello etico, l’evidenza dei segnali anticipatori di prospettive future. Per il riverbero prodotto negli operatori e negli appassionati meritano un cenno le rassegne “Identité Italienne” nel 1981 al Centre Pompidou di Parigi, “The Italian Metamorphosis” nel 1994 al Guggenheim Museum di New York e “Post Zang Tumb Tuuum. Art, Life, Politics: Italia 1918-1943”, nel 2018 alla Fondazione Prada di Milano, che hanno dato luce alla figura e al ruolo del “curatore”, a cui poi numerosi suoi colleghi si sono rifatti.