Sessantotto: una storia infinita

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di Aldo Marchetti

 

Una piccola questione di metodo

 

È passato mezzo secolo dal Sessantotto eppure l’interesse per quel evento (gli storici hanno usato spesso questo termine) non sembra affievolirsi e articoli e libri continuano a uscire non solo in occasione delle decennali ricorrenze ma anche negli intervalli tra l’una e l’altra. Di per sé questo interesse dimostra l’importanza di quella data, ma rivela anche che qualche cosa continua a sfuggire e a impedire una soddisfacente comprensione.

Si può guardare al ’68 ricorrendo a due immagini (o forme della narrazione) diverse. La prima ci parla di un movimento destinato prima o poi a farsi istituzione. È la visione di Alberoni (insegnava alla Cattolica nel ’68) nel suo famoso saggio, intitolato appunto: Movimento e istituzione. L’autore considera i movimenti sociali come un accumularsi di tensioni dentro le persone e le comunità che vengono temporaneamente trattenute e represse ma sono destinate a esplodere in una fase in cui ciascuno riconosce negli altri gli stessi problemi che teneva chiusi dentro di sé: è la fase dello “stato nascente”. Dopo lo sfogo delle passioni, dopo l’effervescenza dell’azione collettiva con le sue manifestazioni più dirompenti, i soggetti sono costretti a fare i conti con la realtà. Lentamente i movimenti declinano, scendono a compromessi, si trasformano in istituzioni entrando a far parte del “Sistema”. C’è forse qualche cosa di vero nell’immagine di Alberoni ma a me è sembrata sempre un po’ meccanica. La rigida scansione delle fasi e l’inevitabilità del risultato mi pare che non diano ragione dell’inserimento dei movimenti in una storia più lunga, che li condiziona all’origine e che si nutre in seguito dei suoi elementi più vivi, nonché della loro complessità, poiché non sempre si riducono a organizzazioni stabili ma possono prender altre strade: la violenza pura, l’auto-distruzione, la marginalità, la metamorfosi in movimenti di altro genere, e forse tutte queste forme si possono ritrovare come postumi della “effervescenza” sessantottesca. La seconda immagine è quella di Dumezil (un grande studioso delle civiltà indoeuropee) che pensa alla società come un fiume dove correnti calde e fredde scorrono insieme, scambiandosi la temperatura. I movimenti sociali sono le correnti calde che a volte prevalgono, rimescolando – è il caso di dirlo – le acque. L’immagine di Dumezil mi sembra più adatta per capire il ’68. Solo ora, dopo tanto tempo, è possibile considerare quell’anno meraviglioso (come amava dire Rostagno, criticando Capanna che lo definiva formidabile) come una fase in cui le correnti della società che provenivano da lontano si sono mescolate a fondo lasciando scorrere nei decenni successivi altri flussi che sono arrivati fino ai nostri giorni. C’è quindi un flusso a monte, che contribuisce a comprendere la genesi di quell’anno e un flusso a valle che aiuta a capirlo con il senno del poi.

 

Alcune considerazioni sul Sessantotto in generale

 

Cominciamo con il primo. Il Sessantotto è stato una rivolta giovanile contro la famiglia e la scuola come organizzazioni fondate sull’autoritarismo e il potere gerarchico, che si è poi allargata alle altre istituzioni. È stata quindi, inizialmente, una rivolta morale e culturale che tuttavia non avrebbe potuto deflagrare se quelle istituzioni fondamentali della società non fossero già state minate all’interno, non avessero cioè già perduta la loro legittimità agli occhi delle generazioni più giovani. Capire il Sessantotto è quindi capire i motivi per cui una generazione di giovani ha sentito la necessità di liberarsi dalla catena di soggezione che la teneva legata a quella dei padri. Si è trattato di un processo lento che è maturato con l’affermarsi della scuola di massa, quando, generazione dopo generazione, i figli raggiungevano livelli di scolarizzazione più alti di quelli dei genitori. All’inizio, molto schematicamente: padri analfabeti e figli che sapevano leggere e scrivere; poi genitori con la scuola elementare e figli diplomati; e poi ancora genitori, magari con la terza media, e con figli laureati. L’atavica, antichissima superiorità delle vecchie generazioni, che detenevano il monopolio delle conoscenze, trasmesse poi generosamente a quelle più giovani, veniva erosa dai processi di scolarizzazione accompagnati dal rinnovarsi continuo delle competenze richieste nei diversi mestieri. In altre parole la distribuzione dei saperi tra le generazioni subiva un rovesciamento epocale. Del resto il processo è ancora in corso se si pensa che un bambino di cinque anni manipola un i-Phone con l’abilità che suo nonno, analfabeta informatico, sa che non potrà mai raggiungere.

È da qui che, ben prima del ’68, maturano nei giovani insofferenza e ostilità nei confronti della scuola e della famiglia con la loro presunta superiorità e il loro autoritarismo. Si pensi ai romanzi di formazione di tre tra i più grandi scrittori del secolo scorso: I dolori del giovane Törless di Musil, Dedalus di Joyce, Tonio Kröger di Thomas Mann. In tutti e tre i giovani protagonisti nutrono nei confronti dei genitori e della scuola sentimenti che vanno da una sdegnosa indifferenza a una profonda repulsione. Il ’68 è già all’orizzonte: Stephen, compagno di scuola di Dedalus, propone una ribellione collettiva contro i metodi repressivi, che prevedono l’uso della frusta, del collegio gesuita di Clongowes, ma gli altri studenti si spaventano e la proposta cade nel vuoto. Questo bisogno di ribellione ritorna in altri importanti romanzi degli anni ’30 come La cospirazione di Nizan e Fiorirà l’aspidistra di Orwell. In ambedue i romanzi i protagonisti sono giovani borghesi, animati da un prepotente spirito di rivolta contro l’ambiente famigliare e costretti, dopo tentativi grotteschi di fare la rivoluzione, a conformarsi a quella normalità che tanto avevano odiato. I primi movimenti studenteschi e giovanili risalgono proprio a quel periodo: sono quelli dei Wandervogel che nascono in Germania e Austria a cavallo della Grande guerra e negli anni Venti e che si spegneranno solo con l’avvento del nazismo.

In questo più lento processo si sono poi inseriti ben altri traumi. La generazione dei nostri padri è stata quella dei regimi totalitari e dispotici del Ventesimo secolo, della Seconda guerra mondiale, dei campi di sterminio, di Hiroshima, della guerra fredda. Se questa generazione la si prendeva in blocco (e allora non riuscivamo a fare molte distinzioni) non si poteva non osservare che si era presa delle belle responsabilità. Come poteva essere successo tutto questo? I libri della Scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno, gettavano un’ombra sulla classe borghese occidentale che aveva stravolto i valori dell’Illuminismo e i testi teatrali di Sartre e di Brecht puntavano il dito nella stessa direzione e lo giravano nella piaga. Ma poi, ecco, come se nulla fosse successo, a distanza di qualche anno dalla fine della guerra, quella stessa società borghese dava vita al boom economico, alla società del benessere, al consumismo, che ai nostri occhi apparivano solo come un modo per dimenticare, per rimuovere quel terribile e assai vicino passato.

Nella canzone Dio è morto Guccini dice: “nei campi di sterminio Dio è morto” ma aggiunge che è morto anche nelle “auto prese a rate” e nei “miti dell’estate”, cioè nella società che ci veniva presentata, su un piatto d’argento, negli anni ’60. Guccini scrive questa canzone nel 1965 e i Nomadi la lanciano sul mercato nel 1967. Nel recente romanzo autobiografico Tigre di carta (2002) l’autore, Olivier Rolin, che è stato da giovane un leader della rivolta studentesca del maggio francese, ricordando che la generazione di suo padre era stata quella che aveva accettato la vergogna del governo collaborazionista di Petain, dopo la sconfitta francese del 1940, afferma che: «[…] si provava ancor più questo bisogno di eroismo quanto più la Francia dei nostri padri in generale era così abominevolmente mancata in questo. Nascere subito dopo Vichy, sai, dà voglia di epopea.» (Rolin O., Tigre di carta, Firenze, Edizioni Clichy, 2014, p. 185). Insomma c’era in noi, studenti del ’68, il bisogno di mettere i padri e le istituzioni da loro incarnate, a cominciare dalla scuola, di fronte alla contraddizione tra l’autorità esibita e la loro pregressa, e assai discutibile, condotta di vita. Eravamo allo stesso tempo contro la borghesia, contro il consumismo e contro papà. Si possono trovare altre cause del ’68, accanto a questa di carattere morale che ho cercato di spiegare, ma mi pare che proprio questa meriti di essere sottolineata.

Il ’68 è stato l’esito, così io penso, del lungo flusso storico della scolarizzazione di massa e dei traumi terribili della prima metà del secolo scorso. Solo questo può spiegare, a mio parere, il fatto che i protagonisti siano stati i giovani nati subito dopo la guerra mondiale e che la rivolta, come la guerra, abbia avuto un carattere planetario. Solo questo spiega anche l’opposizione dei giovani americani, negli ani ’60, alla guerra del Vietnam. È stato un fatto storico di enorme importanza che forse non si era mai verificato prima in quelle proporzioni: la giovane generazione americana si è rifiutata di seguire le orme dei padri che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale.

Ma resterebbe da vedere il flusso a valle sul quale vanno spese almeno due parole. Dopo il ’68 c’è stato uno sciame di movimenti sociali, lungo come la coda di una cometa. Le mobilitazioni studentesche si sono diffuse nelle scuole medie e, almeno in Italia, le occupazioni di sedi universitarie hanno avuto delle repliche nel 1977 e nel 1989. Dal suo ceppo sono nati i movimenti giovanili con i centri sociali, i movimenti delle donne, degli omosessuali, delle minoranze etniche, dell’ecologia, della difesa dell’ambiente. Movimenti che continuano ancor oggi disperdendosi in mille rivoli. Questi movimenti hanno influito poco o nulla sugli assetti del potere politico o sull’organizzazione del sistema produttivo, ma hanno cambiato a fondo la natura dei rapporti sociali, la famiglia, la scuola, la cultura, i consumi, i comportamenti collettivi, i rapporti con la natura. I loro esiti non sono ancora del tutto valutabili ma sappiamo già che continueranno.