Sole alto sulla ex Jugoslavia

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Un film del regista croato Dalibor Matanić

di Gianfranco Sodomaco

 

 

Per noi che viviamo sullo stesso mare, che da questa città raggiungiamo in breve tempo i confini di quello che fino a un ventennio era uno stato ed oggi è diventato uno, due, tre e oltre, stati, come dimenticare la tragedia di quella che s’era definita nazione, popolo, addirittura ‘fratellanza’? No, se non vogliamo fingere, rimuovere ipocritamente, non possiamo dimenticare il disfacimento della Jugoslavia: nessun nostalgismo ma nemmeno chiudere gli occhi davanti a quello che è accaduto e, per certi aspetti, sta ancora accadendo. Per questo, oserei dire magistralmente, il regista croato Dalibor Matanić ha voluto girare un film come Sole Alto / Zvizdan, lo Zenit). Matanić, quarantenne, nato a Zara, diplomatosi in regia all’Università di Zagabria, ha ottenuto, nel giro di un anno, premi e riconoscimenti in mezzo mondo. Non resta che andare a vedere la storia, suddivisa in tre episodi che coprono tre annate di decenni diversi: 1991, 2001, 2011. Scontato che uno dei problemi del regista era restituire il senso dello sviluppo della storia, ma altrettanto evidente che le soluzioni narrative che ha trovato contengono una sapienza artistica fuori dal comune. Prima fra tutte quella di aver fatto interpretare tutti e tre gli episodi agli stessi giovani attori: la serba Tihana Lazović (Jelena) e il croato Goran Marković (Ivan). Primo episodio.

(Sinossi – da ‘Vivi il Cinema’, 2, 2016)”Nel 1991 incontriamo Jelena e Ivan sulla riva di un lago, mentre trascorrono beatamente un pomeriggio estivo. Il clima idilliaco è in realtà spezzato dagli echi di guerra che sìintensificano: i rapporti tra le etnie e, quando arrivano le milizie, il distacco è ormai irreversibile e l’odio prorompe tra chi un tempo si frequentava. I due ragazzi pianificano la fuga ma l’ostilità del fratello neo arruolato di lei si frappone e finisce malissimo. Dopo una canzone folk di raccordo, mentre scorrono le immagini di case distrutte, diroccate, semicrollate con effetti personali tra le rovine, siamo nel 2001, quando Natasha e la madre tornano a casa dopo aver trascorso il primo dopoguerra in un alloggio di fortuna. Il materasso bruciato riporta alla memoria i lutti familiari (gli uomini di casa sono morti) e il rancore della ragazza si traduce nell’avversione muta nel confronti di Ante, l’operaio croato chiamato a ristrutturare la casa. Non meno provata, la madre vorrebbe voltare pagina, ma la guerra è ancora troppo recente perché la figlia non sfoghi su di lei la propria rabbia e perché l’attrazione tra Natasha e Ante si consumi senza provocare ferite e umiliazioni. Altra canzone di raccordo, su un ritmo sincopato, mentre il paesaggio scorre rapido con l’evidente ricostruzione: siamo nel 2011. Luka sta tornando al villaggio per un ‘rave party’, in un clima spensierato nello stesso bar in riva al lago che abbiamo già conosciuto. Ma Luka è attanagliato dal senso di colpa durante la visita ai genitori ma, soprattutto davanti alla ex (e al loro bambino che nel frattempo è nato) che ha abbandonato per gli studi universitari in città: sente di aver bruciato una occasione irripetibile ma dopo che la donna lo ha messo alla porta e lui torna a bussare… lei lascia la porta aperta: nel clima collettivo della festa rave, nel finale subacqueo (una scena che abbiamo già visto all’inizio della storia) è l’alba di un nuovo giorno, il sole tornerà ad essere alto, al suo zenit, al suo culmine.”

La guerra è formalmente finita col trattato di pace di Dayton (Stati Uniti) e poi di Parigi alla fine del 1995 ma, è questa la verità profonda del film, molte ferite sono rimaste aperte (come dimenticare, per fare un solo esempio, la strage di Srebrenica, avvenuta pochi mesi prima della fine della guerra e ricordata l’anno scorso nel suo ventennale). E per questo che sento il dovere, con questa, se volete strana recensione, di riportare alcuni pensieri di Dalibor Matanić:

“La scrittura della sceneggiatura è durata cinque anni e a un certo punto mi sono accorto che tutto stava succedendo di nuovo: con le nuove elezioni, non solo nel Balcani ma in tutta Europa, stanno riemergendo forze neonaziste… La gente, soprattutto le nuove generazioni, non sanno quanta sofferenza questo ha causato nella Storia. Ecco perché nel film vediamo che i giovani dovrebbero essere più progressisti dei loro nonni, ma spesso non lo sono… Angela Merkel ha detto che si aspetta un nuovo conflitto nei Balcani entro i prossimi 15-20 anni. Se i politici non fanno crescere la società in termini di tolleranza, perdono e compassione tutto torna in circolo, ci sarà un’altra guerra e non solo nel Balcani… Nel film il tempo lo uso come tempo del dolore: nella prima decade è fisico e pulsante, nella seconda è ancora una ferita e nella terza è insito tanto profondamente nella gente che quasi non se ne accorge…” (Il Piccolo, 22 gennaio 2016)

“Dopo cinque anni, dopo il 2011, la situazione sta migliorando ma i politici sono sempre un grande problema. Stanno costruendo muri, aprendo le tombe e risvegliando i morti, puntando il dito contro ‘gli altri’. Perché? Per guadagnare punti, solo per quello. Non sanno quanto male stanno facendo al proprio paese, e non parlo solo di Croazia o di Balcani ma di tutto il mondo: la gente vede corto, non si preoccupa del futuro… L’amore è vittima dei giochi storici e politici, perché è così facile odiare quanto difficile amare. Eppure questa è una bugia e dobbiamo insegnarlo alle giovani generazioni, altrimenti un giorno ritroveremo in giro qualche odiatore nazista a marciare, Io non vedo né confini né nazioni, non vedo serbi, croati o italiani ma solo buone o cattive persone…”

(da ‘Vivi il Cinema’, 2, 2016)

Parole profetiche, un grande film.