Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte terza)

di Giancarlo Pauletto

Ho incontrato Armando Pizzinato nel 1973, in occasione dell’esposizione, sempre presso la Sagittaria, del suo lavoro grafico, per il quale fu stampato un voluminoso catalogo con testi di Giuseppe Marchiori.

Avevo conosciuto la sua opera di pittore nel ’70, in occasione della precedente mostra che era stata curata dal critico veneziano Paolo Rizzi.

Essa mi aveva profondamente interessato, poiché nella sequenza dei quadri si potevano leggere bene gli apporti che l’artista aveva fatto propri, raggiungendo attraverso essi uno stile inconfondibile, l’evidenza oggettuale e cromatica che rimane strettamente sua attraverso le varie scansioni linguistiche via via adottate: dalla forza primigenia di un ragazzo che, a quindici anni, dipinge un paio di scarpe di forte presenza realistica, alla sapiente rielaborazione di spunti della Scuola Romana, al cubofuturismo iniziato già durante la guerra – il Partigiano torturato, la Ragazza ebrea – e poi esploso nell’immediato dopoguerra, per arrivare almeno fino al Fantasma del 1950.

Poi il neorealismo, e la ripresa naturalistica degli anni sessanta fino alla totale libertà che dopo il settanta caratterizza la sua ricerca, sempre contraddistinta da un dinamismo pittorico, che era evidente metafora della necessità umana di intervento nel mondo e sul mondo.

Avevo già letto delle polemiche – a volte veramente buffe, ma mi si esima, cortesemente, dagli esempi – che avevano accompagnato il neorealismo di Pizzinato come quello di altri suoi sodali, da Guttuso al Mafai della Biennale del ’50, a Mucchi, a Zigaina e, per restare sempre in ambito nostrano, Anzil o Altieri.

Anche Rizzi, nella sua peraltro pregevole introduzione al catalogo del ’70, arriva a parlare, relativamente al neorealismo, e naturalmente in senso negativo, di “linguaggio mutuato dal più esplicito dei mass-media: il cartellone propagandistico”.

Stringi stringi, il cuore della critica era sempre questo: la propaganda non è arte.

Che è come dire che le storie di Tito Livio, così sfacciatamente propagandistiche della potenza romana, niente hanno a che fare con l’arte della prosa; che la Divina Commedia è stata, ora sono ormai sette secoli, una grande bufala, poiché essa è certamente un libro di propaganda cristiana: del cristianesimo di Dante, tra l’altro, non di quello, per dire, di Bonifacio VIII.

E inoltre propaganda dell’Impero, contro l’insorgente “anarchia” comunale.

E d’altronde, quando il furente Alighieri scrive: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande/ che per mare e per terra batti l’ali/ e per lo ’nferno tuo nome si spande!» -: cosa fa, il furente Alighieri, se non propaganda antifiorentina?

E la Sistina? La Sistina non è propaganda “papista”? Potremmo dirlo, se fossimo luterani.

E La libertà che guida il popolo del vecchio Delacroix, dovremmo toglierla dalle storie dell’arte romantica?

E quando il bravo Alessandro scrive i famosi versi: «Soffermati sull’arida sponda,/ volti i guardi al varcato Ticino,/ tutti assorti nel novo destino,/ certi in cor dell’antica virtù… » con quel che segue: questa, non è purissima propaganda risorgimentale?

E infine e per finire – che altrimenti non si finisce mai –, cos’è Guernica, se non propaganda antifascista?

Dire che l’arte non è propaganda è espressione molto incauta, come si vede: la propaganda può essere benissimo arte, se si incarna a fondo nella sensibilità, cioè nella vita, di chi la fa.

Ma bisogna essere, appunto, “candidi”. Non nel senso di “piuttosto sprovveduti”, che è quello che Rizzi attribuisce alla parola quando la usa per Pizzinato.

Invece nel senso di convinti. Bisogna crederci, insomma, e quando la storia ti smentirà – ma anche qui, bisognerebbe vedere fino a quando ti smentirà, e come: il nazismo è stato smentito, ma non è affatto morto, e per il comunismo, chiedete ai cinesi – ti cercherai altri modi per dire le stesse cose.

Che è appunto quel che ha fatto Pizzinato dopo il periodo del realismo.

Mi impegnai in una recensione piuttosto ampia della sua opera grafica, esprimendo anche, in termini essenziali, quel che ho scritto sopra.

Egli mi telefonò, dicendomi che avrebbe avuto piacere di incontrarmi.

Andai, con un po’ di timidezza, all’albergo dove era alloggiato e dopo un quarto d’ora, qualche domanda e qualche risposta, si era già stabilita una bella amicizia.

Mi telefonava alle undici, a mezzanotte per lamentarsi che lo avevo dimenticato, che non andavo più a trovarlo, ma io andavo, e anche per cose importanti, come quando mediai la donazione di opere che fece al Civico Museo Ricchieri di Pordenone: lo convinsi, in quell’occasione, a donare anche un quadro del Fronte Nuovo, ne erano rimasti pochi e di quei pochi si mostrava giustamente geloso.

Entrando a Salute 33 si incontrava prima un piccolo giardino con alberi e gatti poi, aperta la porta che dava sulle scale, si era in uno dei luoghi più importanti dell’arte italiana del secondo Novecento.

Sulle pareti brillavano opere famose: I cantieri, Dragamine e faro, Esorcismo, Canale della Giudecca…

Al pianerottolo si svoltava a destra e si entrava nel soggiorno, un bazar di libri, quadri, carte, cartelle, cornici, fotografie, cataloghi, un bazar in cui mi sarebbe piaciuto tantissimo frugare liberamente, alla scoperta di tutto quello che c’era da scoprire: l’appassionato d’arte ama voltare lui stesso i quadri, mettere le mani nei cassetti e negli scaffali, aprire faldoni in cui immagina di trovare tesori, e talvolta mi è accaduto: ma naturalmente bisogna che l’artista sia morto, e invece Armando era ben vivo, e sapeva lui dove mettere le mani.

Poi c’era il pranzo, quasi invariabilmente una sogliola con patate lesse da lui preparata, del formaggio e una bottiglia di ottimo bianco: lui il vino l’assaggiava appena, io ci davo liberamente dentro, tanto a casa mi avrebbe portato il treno.

E parlare, soprattutto rievocare: la Resistenza, i fascisti, le inondazioni del Po, Roderigo di Castiglia, Guttuso, Cagli Vedova Santomaso e tutti gli altri.

E i partigiani che si devono chiamare partigiani, non “patrioti” – ce l’aveva, per questo, con Ciampi presidente della Repubblica; e Morandi che sapeva tutto pur standosene sempre a Grizzana, e poi i momenti felici e i momenti brutti, tra tutti quello dell’improvvisa morte della moglie Zaira, la vigilia di Natale del 1962.

L’ultimo regalo me lo fece quando gli andai a chiedere, verso la fine di gennaio del 2004, alcuni disegni per una mostra che avevo immaginato, e che si sarebbe intitolata Le carte segrete. Cento disegni dal Friuli Occidentale 1930/1960.

Il disegno, qualsiasi vero intenditore lo sa, è la prima luce della pittura, e io conoscevo parecchi pittori di area pordenonese che avevano fatto molti e bellissimi disegni, quasi sempre nascosti in cartelle che non avevano mai visto il sole.

Ne avevo selezionati un centinaio, compresi tra il 1930 e il 1960: l’intenzione era quella di fare più avanti un’altra mostra, che esplorasse gli anni successivi.

Armando, maniaghese di nascita, che aveva imparato a dipingere non certo a Venezia, ma a Pordenone, prima dal vecchio Tiburzio Donadon e poi da Pio Rossi, degnissimi artisti, non poteva mancare in quella rassegna e andai dunque a Venezia per chiedergli i disegni, nonostante sapessi che la sua salute non era più tanto salda.

Mi accolse volentieri, come sempre, e volle scendere faticosamente le scale per accompagnarmi nella stanza a pianterreno dove aveva ordinato i disegni incorniciati.

Ne scegliemmo una decina, di comune accordo, e lo riaccompagnai poi al piano superiore.

Quei disegni dovetti restituirli alla figlia Patrizia, poiché egli venne a mancare proprio durante la mostra.

Nel 1992, con il libro fotografico Poffabro Luogo Magico, aveva dato un grande contributo alla miglior conoscenza e alla giusta conservazione della mirabile architettura spontanea che si trova in Val Colvera, sopra Maniago, e specie a Poffabro, luogo magico della sua infanzia, ma luogo magico anche per la esemplarità umana del suo aspro insediamento alle pendici del monte Raut: «Solo la forza magica dell’amore deve aver guidato la mano di chi, in questa contrada, pietra su pietra, con fatica, ha rizzato per la prima volta per sé, per viverci a misura d’uomo, la sua casa».

Un Maestro.

3-continua

Giuseppe Marchiori

Pizzinato. Opera grafica

Centro iniziative culturali

Pordenone 1973