Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte settima)

Luigi Zuccheri, padre, Toni Zuccheri, figlio, architetto e designer e anche Virgilio Tramontin

di Giancarlo Pauletto

 

Con la pittura di Zuccheri (Gemona 1904 – Venezia 1974) entrai in contatto proprio con la mostra “pasoliniana” rievocata nel 1979, anche perché essa venne allestita appunto nel palazzo Zuccheri di San Vito al Tagliamento.

Ebbi così modo di vedere molti suoi quadri appesi alle pareti, oltre a quelli scelti per la mostra rievocativa.

In quella circostanza conobbi Toni e Maria Zuccheri, che divennero poi dei cari amici, tanto che mi fu chiesto, dopo qualche tempo, di operare la divisione, in tre parti, di tutto il patrimonio d’opere lasciato dal pittore.

Fu un impegno intenso e felice.

Per una ventina di volte, forse più, mi recai a casa Zuccheri dove, in uno spazio molto ampio dei piani superiori, era custodita la gran parte dei materiali, che comprendeva non solo quadri, ma molte opere su carta – pastelli e disegni – e una notevole quantità di sculture, parte in bronzo e parte in cera, che riprendevano con grande finezza di modellato la nota tematica “animalista”

dell’autore.

Vidi così che c’era un prima e un dopo, nella produzione di Zuccheri, il prima rappresentato dagli anni trenta, durante i quali egli matura come pittore soprattutto sotto il segno di Umberto Martina, il cui studio frequentava a Venezia: appartengono al periodo, oltre a notevoli paesaggi, parecchi importanti ritratti, qualcuno anche a figura intera, condotti con sicuro mestiere non solo, ma anche con vera capacità di sguardo nell’umano, in modi rapidi, sciolti, avendo sullo sfondo il tardo liberty veneziano.

Durante la guerra – certo non estranea al fatto – avviene il cambiamento: la pittura si addensa e, pur non perdendo la sua limpidezza, volge decisamente al simbolico, all’acquisizione di modi tratti dall’ex voto popolare – di cui vi sono parecchi esempi su tavola e su pergamena –; finché, verso la fine e nell’immediato dopoguerra, l’artista adotta quella tematica animalista che resterà la sua definitiva, quella per cui è soprattutto conosciuto e apprezzato.

Accadeva cioè che, mentre l’arte italiana si volgeva al postcubismo e all’informale – Vedova e Burri, diciamo per fare solo due nomi – Zuccheri si volgeva al passato, ad una sorta di pittura antica favolosamente interpretata da merli e aironi, tacchini e tartarughe, conigli galli e galline, e pesci, di fiume e di laguna, e rane e grilli e capre e anatre e faine e via e via e via, avendo in questo un amico e sodale che si chiamava Giorgio De Chirico, con il suo barocco di spiritati mari, cavalli e rovine.

Giorgio De Chirico, che era suo amico, e che con lui si scambiava ricette di pittura: ma di ciò ho già detto in altro luogo.

Qui mi par giusto ricordare quel che scrissi nel 1982, per il catalogo della mostra organizzata dal Comune di Pordenone presso la Chiesa di San Francesco e il Museo civico: che cioè, se una “lectura minor” di Zuccheri come semplice – per quanto bravissimo – pittore animalista era possibile negli anni cinquanta e sessanta, oggi, dopo quella mostra, non è più possibile perché essa mise bene in evidenza nella sua arte l’elemento di inquietudine, di ansia, di “teatro”: insomma un elemento gotico che sentiva e annunciava quel sopruso dell’umano sul naturale, che oggi è certo uno dei massimi problemi che la società degli uomini si trova davanti: con, sembra, piuttosto scarse capacità di risolverlo.

Zuccheri, da pittore, fece quel che poté fare, ridusse l’uomo a omino, lo inserì nello scenario naturale come parte minore, inessenziale: mentre dava la parte centrale alla natura, al suo respiro di campi, acque, animali e piante, e anche al suo mistero non sempre rassicurante: le grandi seppie che nuotano in laguna, o i grandi gamberi che seguono l’andatura dei piccoli uomini sulle rive del fiume, sembrano lì per profittare della loro prima mossa falsa, catturarli e portarseli nel fondo.

L’ultimo grande impegno con l’arte di Luigi Zuccheri è stato tra il novembre del 2018 e il febbraio del 2019 quando, sotto l’egida del Centro di Pordenone e del Comune di San Vito, abbiamo potuto realizzare un vecchio desiderio: mettere a confronto i favolosi animali di Luigi Zuccheri, padre, con quelli altrettanto favolosi di Toni Zuccheri, figlio, architetto e designer, ben noto come uno dei più raffinati e poetici operatori delle fucine veneziane del vetro, per le quali ha lavorato molti anni, e specialmente per Venini.

Le pareti della Galleria Sagittaria allineavano una lunga serie di pastelli di Luigi, quasi tutti mai visti, mirabili per disegno, composizione, invenzione cromatica pur nella ripetizione “animalista” del tema: ma ognuno era cielo e terra, acqua e vita, un mondo, infine una incantata e struggente metafora del tutto.

Al centro della sala dodici pezzi di Toni, il Gallo di “vetro soffiato e lavorato a mano volante”, come si dice tecnicamente, e poi l’Upupetta in bronzo “con penne di vetro multicolore”, e poi la stupenda eleganza color vino trasparente della Folaga, e poi la Gazza ladra “vetro e gesso modellato e dipinto con inserzioni multimateriche”, e poi l’impettito, niveo Gabbiano, e poi la meravigliosa Anitra, ancora “vetro soffiato e lavorato a mano volante”: e qui mi fermo, per non esagerare.

Toni realizzava, nei suoi animali, un perfetto equilibrio tra varietà e unità, tra l’incalcolabile fantasia della natura e la sua – della natura, dico – semplicità progettuale, per cui noi vediamo che una è l’anitra, nell’essenza, ma molte sono le anitre, nella concretezza del vivente.

Ho scritto alcuni testi per Toni Zuccheri, uno anche per il catalogo di una mostra a New York nel 1990, qui mi permetto di riprodurre una poesia che scrissi nel 1993, perché rende forse con sufficiente evidenza la meraviglia che si genera nello spettatore davanti alle sue creazioni: “Dentro/ quest’orto di papaveri, questo/ giardino d’edere e di ebbre/ violacciocche, Toni/ Zuccheri, artefice/ dolcissimo, ha educato il suo/ albero dei pappagalli, astrali uccelli d’argento/ e zafferano, colchici che Venere/ strappò a Vulcano iroso, e pose/ nel grembo delle Grazie.// Io qui,/ io certo, senza/ scherzi, davanti/ a tanto di furiosa/ e illuminata grazia, ammutolisco e/ (quasi) piango.”.

 

Un’altra poesia, a mio parere molto bella, permetterà di introdurre il discorso su Virgilio Tramontin (San Vito al Tagliamento 1908 – 2002), certamente tra i più valenti incisori italiani del Novecento.

Sono versi di Amedeo Giacomini, a sua volta fra i migliori poeti friulani del secolo scorso, dedicati all’artista in occasione di una mostra: “A lum di cjandèle la to mûse/ di marangon serio, furlan,/ a somearés, Virgilio, cuntri il mûr,/ une mûse todesce, inglassade dai ociâi,/ ma cognossiti donge, entrà dentri di te,/ omin di pene, omin di misure,/ al è ciatà un segno dal jessi,/ vêrs e di bessoi,/ dal scugnì jessi la ca si po’,/ a pel di un’âghe fate di tasè, ta un còlp di matite, ta une lûs, ta un pedrât, dentri une cristiane, grande serenitât.”.

La poesia fa rivivere perfettamente, in chi l’abbia conosciuto, la figura dell’artista: non alto, scarno, di poche parole, un lucente temperamento di poeta che si rivelava particolarmente nella sottile, complessa arte dell’incisione, in paesaggi di limpida trasparenza, in figure e ritratti colti con grande intensità.

Ma Tramontin è anche autore di moltissimi quadri, su tela e su tavola, e il colore gli fu di molto sostegno quando – avanti con l’età, a causa della vista indebolita – non poté più incidere.

E poi un grande disegnatore.

Insegnando all’Accademia di Venezia, ma anche in giro per il Friuli, l’Italia e l’Europa, viaggiava sempre con un notes in tasca: molte migliaia sono i disegni, gli acquarelli, i piccoli pastelli che ci ha lasciato, un formidabile diario di vita e di lavoro.

Quando nei primi mesi del 1983 immaginammo, al Centro di Pordenone, la sua mostra antologica,

decidemmo subito che non sarebbe stata solo d’incisione – la faccia più nota dell’artista -, ma anche di pitture disegni e acquarelli, perché era ora di esplorare più da vicino tutta la sua “officina”. E si trattava, anche, di fare il punto sul suo catalogo di lastre incise, e inoltre di stendere un curriculum e una bibliografia che mirassero alla maggior completezza possibile.

Fu un lavoro molto impegnativo, ma io ne ho una memoria gratissima. Non suona, il sottotitolo di questo scritto, “la bella vita del critico d’arte”?

Eccolo qua, un esempio di bella vita.

Mi recavo – quasi sempre al pomeriggio, verso le quattro – a casa dell’artista, che mi attendeva – nella spaziosa cucina della sua abitazione in centro a San Vito – con un pacco di cartelle, da cui cominciarono ad uscire prima le incisioni, poi le carte disegnate e colorate, poi i tantissimi notes pieni di disegni, chine, ma anche piccoli pastelli e acquarelli.

Infine cominciarono a scendere, dalla grande stanza-studio che si trovava al piano superiore, gli oli, le molte tavole e le molte tele – generalmente di piccole o medie dimensioni – che egli aveva dipinto durante una vita: la prima, tra le rimaste, alla bella età di sedici anni.

Passammo in rassegna così molte migliaia di lavori, di tanto in tanto io gli chiedevo di accantonare qualcosa che poteva servire alla mostra che avevamo in mente, lui eseguiva senza commenti, con un rispetto del lavoro critico che io ho incontrato molto raramente nei miei, contiamoli pure, sessantanni di impegno.

Passarono così molti pomeriggi, ogni tanto egli mi chiedeva se quello che avevo già visto non bastasse ma io, che godevo tantissimo a vedermi passare sotto gli occhi tutto quel ben di Dio, riconoscendo o facendomi indicare da lui luoghi e persone, monti e fiumi, castelli e svolte di campagna, chiese paesi alberi e osterie, rispondevo che no, che anzi, se non era stanco lui di sopportarmi, per me andava benissimo vedere tutto quello che c’era.

Dopo circa un’ora e mezza di lavoro la moglie di Virgilio, la signora Elisa, interveniva con il suo profumatissimo tè al rhum e i pasticcini, e c’era una prima sosta riempita da mie richieste di notizie e precisazioni, e da commenti di varia natura; poi si ricominciava a vedere, e intanto i lavori messi da parte assumevano sempre più la caratteristica di una mole, che avrebbe avuto bisogno di essere assai sfoltita per arrivare alle circa centoventi-centotrenta opere che, in considerazione degli spazi disponibili, potevano essere utilizzate.

Poi, all’approssimarsi dell’ora di cena, si smetteva di lavorare e ci si volgeva alla bottiglietta di bianco, che era cura di Virgilio prelevare dal frigorifero, stappare e versare nei due bicchieri, il mio e il suo, il mio pieno, il suo un po’ meno, mentre i pasticcini erano sempre lì, a tenere compagnia.

Prima di andarmene, interveniva l’accordo per la puntata successiva.

Se non è bella vita questa!

Ne uscì una mostra di grande suggestione, con un catalogo che comprendeva sessantasei riproduzioni e i dati tecnici di tutte le lastre incise dal 1932 al 1981, e degli ex libris dal 1933 al 1983, per un totale  di quasi settecentocinquanta pezzi.

Un buon lavoro, ma eravamo tutti consapevoli che molto altro c’era, da far emergere, pescando dentro il pozzo di San Patrizio rappresentato dal lavoro di Tramontin.

E una parte di questo altro effettivamente uscì, ma tutto, purtroppo, dopo la morte dell’artista, per le tante ragioni che interferiscono, nella vita di noi tutti, anche con le migliori intenzioni.

Nel 2007 mettemmo in cantiere un grande album – 28,5 cm di altezza e 41 di base per 134 pagine – intitolato Virgilio Tramontin. Friuli. Esso conteneva la riproduzione, anche in scelti particolari, di oltre settanta incisioni relative al Friuli, tutto: montagna, pianura, mare, città borghi castelli ville e due figure, splendide: un autoritratto del 1953 ad aprire il volume e un ritratto della moglie – Elisa che lavora – del 1941.

Molte di quelle incisioni erano inedite, e tutte insieme andavano a coprire un arco di cinquant’anni giusti, dal 1937 al 1987.

Tramontin è un compendio del Friuli, e del medesimo Friuli molti aspetti si possono ormai rivedere solo nelle sue carte incise e disegnate, che assumono allora anche un valore di testimonianza storica.

Tra il novembre del 2013 e il marzo del 2014, in una mostra di ben oltre cento opere presso la Galleria Sagittaria, fu esplorata, per la prima volta con compiutezza, la sua pittura, che suscitò l’ammirata meraviglia di molti: il primo quadro era del 1924, l’ultimo del 1990, di tutta questa mole di lavoro il noto era quasi niente.

C’erano delle ragioni, naturalmente, ma non se ne può parlare in questa sede, chi ne fosse curioso le può ritrovare nel ricco catalogo della mostra, che presenta più di cento riproduzioni.

Recentemente infine (dicembre 2019 – febbraio2020), siamo riusciti a completare l’operazione con la rassegna intitolata Virgilio Tramontin. Opere su carta, che ha esplorato l’immensa mole dei disegni, degli acquarelli e dei notes, anche qui lasciando stupefatti molti intenditori che di Tramontin conoscevano quasi soltanto il lavoro d’incisore.

Ricordo con commozione un tardo pomeriggio del 1983 in cui, lasciando la sua casa dopo una delle tante puntate d’esplorazione, mi diede una cartellina di cui volli svelare subito il segreto: si trattava di una piccola incisione in cui io avevo riconosciuto il vecchio passaggio a livello che, vicinissimo alla stazione di Portogruaro, segnava il confine di casa mia.

Su quella strada e sotto quei platani avevo passato tutta la mia infanzia.

Il gesto squisito di un gentiluomo dell’arte e della vita.

 

 

Luigi Zuccheri

Airone

tempera su tavola, 1955/60