Storie de Fausta

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Grisancich propone in un poemetto in dialetto un’altra declinazione della sua poesia narrativa

Anche per Grisancich vale, senza dubbio, la frase di Flaubert, e “Fausta”, potrebbe dire, “c’est moi”!

di Fulvio Senardi

 

Storie de Fausta, il poemetto in dialetto triestino che Claudio Grisancich ha da poco offerto al pubblico dei suoi estimatori discende in linea diretta da Album (Hammerle editori, 2013). Non solo per l’ambientazione (si direbbe scontata per la poesia dialettale), dove è sapientemente giocata la carta dell’intreccio di luoghi e di memorie, ma per lo scorrere sorgivo del verso, affrancato dagli utili impacci della punteggiatura.

Lì, in Album, tale resa era funzionale al fluire libero e quasi febbrile dei ricordi, amministrati da un Io lirico coincidente con lo stesso autore. Qui un flusso memoriale tutto a carico del personaggio affabulante, Fausta appunto, per la quale Grisancich rielabora il verso lungo di alcune composizioni di Album, dandoci una metrica compatta, che strizza d’occhio all’alessandrino delle Chansons de geste. Del resto, come ci insegna la storia letteraria, anche il più famoso dei poemetti del secondo Novecento intitolato ad una donna, La ragazza Carla, di Elio Pagliarani (1960) ha optato per un funzionale verso lungo, prevalentemente dodecasillabi ed endecasillabi, i più adatti all’economia di un racconto. E in effetti in Storie de Fausta, perfezionando un indirizzo ormai prevalente nella sua produzione più recente, il poeta “racconta” piuttosto che “cantare”. Ma c’è un altro punto di raccordo tra le due figure: entrambe rappresentano donne autonome ed indipendenti, che vivono del proprio lavoro, paradigmi, se vogliamo, di una femminilità moderna per la quale è giocoforza misurarsi, non senza compromessi dolorosi, con il più tradizionale modo di sentire. Con un vantaggio da parte di Fausta, classe 1902: il fatto di anticipare, per ben note ragioni storiche, una condizione femminile che il resto d’Italia ha invidiato alle “mule” di Trieste, senza poter o volerlo imitare se non, e timidamente, dopo lo spartiacque della guerra.

Ma vorrei insistere ancora un momento su Pagliarani (ci ha lasciati cinque anni fa), perché in una sua intervista esprime delle convinzioni che calzano a pennello al poeta triestino. Scriveva dunque nel 1965 che la funzione sociale della letteratura (del tutto, aggiungeva, preterintenzionale), «è quella di mantenere in efficienza per tutti il linguaggio». C’è naturalmente in questa frase qualcosa dell’illusione “pan-linguistica” del Gruppo ’65, un concetto che vorremmo oggi, semmai, riformulare, nel senso di una “eticità della lingua”, di un riscossa per ciò che ci appartiene in nome di un’idea forte, ancorché non antagonistica o autarchica, di identità. Ma, per tornare a Grisancich, ciò che per il poeta in lingua è un’esigenza importante ma in fondo non prioritaria, per il dialettale è ragione stessa di vita. Egli è veramente il pastore dell’essere, per prendere, tradendola, l’espressione di un controverso pensatore, in una città totalmente e orgogliosamente dialettale in tutte le forme della socialità, dove pensiero e parola, come in ogni luogo peraltro, fanno un blocco unico, cementato dalla vita.

Si noti la cura con la quale Grisancich inventaria e declina le parole del mestiere di Fausta, sarta per signore, lemmi che incarnano un logos che sprizza del sangue della storia, e ridestano grumi di ricordi antichi di cui solo le ultime generazioni, in più sensi orfane dei padri, sono rimaste prive. Ed è poi la stessa tenerezza con cui il poeta nomina i più noti negozi al dettaglio di una Trieste antecedente all’invasione gialla, che, omologando, ha appiattito e snaturato. Ed è poi la stessa tenerezza con cui il poeta nomina i più noti negozi al dettaglio di una Trieste antecedente all’invasione gialla, che, omologando, ha appiattito e snaturato. D’altra parte, che sempre più spesso ragazzi dagli occhi a mandorla parlino in vernacolo, è un altro segno dell’invincibile forza del genius loci, e lascia ben sperare. «Noi siamo terreno da coltivare per le cose», diceva Nietzsche, e qui da noi le cose hanno un suono solo e inconfondibile. Resta ancora da indicare (ma molto più e altro si potrebbe aggiungere) una conseguenza della scelta di affidarsi al pensiero monologico di Fausta, opzione vantaggiosa in termini di partecipazione ed empatia. Il ventaglio di situazioni di Album che, aprendosi a ventaglio, rapiva i segreti del mondo a pezzi e a bocconi, è qui subordinato, per ragioni di verosimiglianza, al “pensiero unico” di un io specifico, con il rischio che sfugga, come a noi tutti per altro nel percorso esclusivo che a ciascuno è dato, l’infinita complessità del reale. Lo sguardo giudicante, che spesso si esprimeva in Grisancich con toni di ironia epigrammatica e coglieva, oltre al bene, tutto il male del mondo, si impiglia e rischia di sparire, abbassandosi al livello di un particolare e ben concreto esistere, nel plissettato degli eleganti tailleur su cui agile sforbicia la mano di Fausta. Del resto, il poeta si è messo su un percorso obbligato: ogni scrittore colloquia con i suoi personaggi, per fare il verso a Pirandello, e se è leale con se stesso e i suoi lettori, lascia loro, e non a malincuore, l’ultima parola. Sullo spartito di un carattere, di una collocazione sociale, di un’epoca certe note suonerebbero stonate: ve la immaginate voi Fausta a fare da staffetta partigiana, o a riflettere sulle tragedie della guerra, nella passeggiata che la porta da casa ai negozi del centro, o a filare pensieri sulla letteratura e sull’arte, o a valutare tra sé e sé vizi e virtù dei governi Rumor? Anche per Grisancich vale, senza dubbio, la frase di Flaubert, e “Fausta”, potrebbe dire, “c’est moi”! (in effetti tutto suo, chi lo conosce lo capisce, l’inciso su Anita Pittoni, così ricco di ammirazione e tenerezza). Ma a quanto ha dovuto rinunciare del suo spessore umano e di cultura, delle sue convinzioni di uomo impegnato per darci il ritratto plausibile di questa “babeta sgaia”, come si direbbe da noi; e che pure ha, all’attivo, un cuore grande e generoso e la voglia tenace di essere se stessa, sfidando compromessi e ipocrisie, donna emancipata quasi senza saperlo, per come spontaneamente realizza il suo bisogno di libertà. Chi mi ha seguito fin qua, avrà capito che il mio gusto inclina più verso Album che verso Storie de Fausta. Ma, come scriveva Saba, cose misteriose avvengono nelle cucine dei poeti. E chi siamo noi per ergerci a giudici delle loro ricette?

 

 

Copertina:

 

Claudio Grisancich

Storie de Fausta

Ed. Vita Activa, Trieste 2017

  1. Euro 12,00