Storie di casa Cavazzini

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Intervista a Vania Gransinigh conservatore responsabile del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine

di Laura Fonovich

 

Spesso la complessità delle vicende storiche porta ad una semplificazione delle informazioni, le quali a loro volta tendono a generare leggende metropolitane o quanto meno luoghi comuni che corrispondono a verità parziali. Nel caso di Casa Cavazzini, il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine, sono più di una, tra queste: la donazione da parte di Dante Cavazzini del complesso di edifici; l’attribuzione a Gae Aulenti del progetto di restauro e riqualificazione; le motivazioni del nuovo progetto di riqualificazione. Per far chiarezza sull’intreccio di vicende che si sono susseguite nel tempo e che hanno dato luogo a mal interpretazioni, ne abbiamo parlato con Vania Gransinigh Conservatore responsabile del museo.

 

Dottoressa Gransinigh, potrebbe chiarirci le vicende che soggiacciono alla “donazione” da parte di Dante Cavazzini del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine?

L’edificio che Dante Cavazzini, per volontà testamentaria, volle destinare a sede del nuovo museo di arte moderna e contemporanea della città, non fu donato perché faceva parte dei beni di una società e quindi non poteva essere alienato. Il Comune avrebbe dovuto trovare autonomamente le risorse per comprarlo, ma avrebbe potuto farlo a un prezzo di favore, fuori mercato. L’acquisto dell’intero complesso architettonico avvenne solo nel 1993, grazie all’allora sindaco Claudio Mussato che riuscì a trovare i fondi a bilancio. Dicendo questo, non voglio sottovalutare la generosità di Dante Cavazzini che si è espressa anche in altri modi. Per sua volontà e per quella della moglie Aminta Flebus, ad esempio, alla morte della stessa, è giunta al museo una cospicua somma di denaro destinata all’arricchimento delle collezioni e all’acquisizione di nuove opere.

 

Quando si parla della ristrutturazione di Casa Cavazzini, si pensa subito all’architetto Gae Aulenti. In realtà non è andata proprio così, ce ne può parlare?

La vicenda che riguarda il progetto di ristrutturazione di Casa Cavazzini da parte di Gae Aulenti è alquanto complessa; io all’epoca non ero ancora dipendente del Comune e posso riassumere la vicenda per quanto mi è stato raccontato. Dopo l’acquisto, si pensò a Gae Aulenti, oltre che per la sua bravura nell’ambito della riqualificazione dei complessi museali, anche per le sue origini friulane. Il progetto presentato inizialmente suscitò non poche polemiche perché c’erano alcuni errori di progettazione che vennero sottoposti a revisione, mentre altre proposte progettuali non vennero accettate. Tra queste una futuribile passerella sospesa che avrebbe dovuto unire Casa Cavazzini con Palazzo Morpurgo attraversando via Savorgnana e la revisione delle facciate che incontrò l’opposizione della Soprintendenza. Il progetto rimase fermo per molto tempo perché quest’ultima richiese delle modifiche che riguardarono in particolare il fronte strada su via Cavour. Esso si presenta oggi in linea con gli altri edifici che si affacciano sulla stessa via, ma è decisamente più anonimo rispetto a quella che era la proposta originaria dell’architetto. Una volta fatta la gara e individuata finalmente l’impresa che avrebbe dovuto occuparsi dei lavori edilizi, Gae Aulenti avrebbe voluto avocare a sé la direzione del cantiere, cosa che la legge italiana non consente di fare perché la figura del direttore che controlla la fase realizzativa del progetto deve essere diversa dal progettista per ragioni che sono intuitivamente comprensibili. Si aprì un contenzioso che finì in Tribunale: alla fine il Comune vinse la causa ma Gae Aulenti abbandonò il progetto.

 

Quali sono le opere progettuali che rimangono del disegno originario di Gae Aulenti?

Alcuni dei suoi interventi sono ancora ben visibili. Parlo delle torrette ottagonali che lei volle far spuntare dal tetto e che richiamano volutamente la struttura architettonica del campanile del Duomo. In essa Gae Aulenti riconobbe uno degli elementi che contraddistingue lo skyline della città e che veniva così a caratterizzare anche gli interni e gli esterni dell’edificio museale. In una delle torri è ospitata una scultura di Dino Basaldella, lo Squalo, ben visibile dalla strada. Nell’altra vi è invece l’ascensore interno che collega gli uffici ai piani. Un altro suo intervento è riconoscibile nel raccordo di vetro e acciaio della copertura della sala al piano terra, voluta da lei proprio per dare unità ad una serie di edifici attorno a quella che originariamente era una corte interna. Tra tutti direi che l’elemento più caratterizzante della sua progettualità è quello della passerella sospesa che attraversa la Sala Mussato al piano terra, una struttura che raccorda al primo piano due parti distinte dell’edificio.

 

Un progetto che al Comune di Udine costò tantissimo le cui cause spesso si imputano a Gae Aulenti

Il progetto presentato da Gae Aulenti sicuramente non era economico, ma i costi sono lievitati anche per altre ragioni. Quando si aprì il cantiere e si iniziarono i lavori nell’area di quello che sarebbe diventato l’atrio del museo, gli scavi effettuati portarono alla luce alcune risultanze archeologiche. Per la legge italiana, nel momento stesso in cui all’interno di un cantiere vengono trovati dei resti antichi la Soprintendenza deve intervenire per fare le opportune indagini e valutare l’opportunità del recupero di questi elementi. In attesa che queste indagini fossero effettuate, per molti anni la struttura rimase chiusa e i lavori fermi con il cantiere in loco e i relativi costi attivi. Oggi i reperti sono quelli che si vedono nell’atrio e in parte sotto i pavimenti vetrati che ne consentono la visione.

 

Quando sono iniziati i nuovi lavori di adeguamento l’idea che è passata è che fossero stati predisposti soprattutto per poter ospitare mostre di livello internazionale, è vero?

Questi adeguamenti si sono resi necessari perché il progetto era nato negli anni ’90 quando si parlava poco di accessibilità e ancor meno di sostenibilità ambientale. I criteri per la corretta conservazione delle opere non erano ancora così stringenti e gli standard museali, che nel 2001 ne avrebbero fissato ambito di intervento e modalità, erano ancora di là da venire. Il fatto che i lavori di ristrutturazione si siano protratti così a lungo – parliamo di quasi vent’anni tra progettazione e chiusura del cantiere nel 2010 – ha fatto sì che il progetto invecchiasse precocemente. Inoltre, essendosi Gae Aulenti ritirata, il Comune di Udine assunse la direzione dei lavori cercando di tenere fede il più possibile a quello che era il progetto approvato dalla Soprintendenza, senza più nessun intervento del progettista. Nel frattempo, gli standard museali dal 2001 sono diventati prescrittivi, fino ad arrivare al 21 febbraio del 2018 con il famoso decreto Franceschini che a livello nazionale ha imposto il raggiungimento di standard minimi di qualità per le strutture museali, rafforzando i precedenti decreti ed allineandosi a quelli internazionali. Tra i punti salienti del decreto ai quali ci siamo dovuti adeguare sono quelli riguardanti la conservazione delle opere in condizioni microclimatiche stabili. La necessità del controllo del microclima (temperatura, luce, umidità ecc.) e della sicurezza hanno richiesto l’installazione di sistemi che riequilibrino costantemente le temperature e il grado di umidità all’interno dell’edificio, ma anche di un moderno impianto di videosorveglianza che consenta di tenere sotto controllo le sale anche da remoto. A questo si deve aggiungere il fatto che su Casa Cavazzini si è dovuto intervenire anche a livello strutturale. Nata come una casa, presentava alcune problematiche poco consone all’esposizione di opere artistiche come, ad esempio, le innumerevoli finestre in ogni sala. Si sono dovuti adeguare gli spazi creando dei “gusci”, peraltro costosissimi, per uniformare gli spazi e consentire la corretta fruizione delle opere. Una sala è stata sacrificata per poter permettere lo sbarco ai piani di un ascensore in grado di trasportare opere di grandi dimensioni, possibilità che prima non esisteva. L’impianto di illuminazione con faretti alogeni è stato sostituito da lampade a led per favorire il risparmio energetico. Si tratta di adeguamenti necessari non solo per poter ospitare mostre di una certa portata, ma anche per garantire degli standard museali in linea con i tempi e con quanto previsto dalla normativa internazionale.

 

I lavori sono finiti in tempo per allestire la prima grande mostra internazionale organizzata a Udine, “La Forma dell’Infinito”. In questa circostanza quale è stato il suo ruolo come conservatore responsabile?

Normalmente questo tipo di mostre sono gestite da società esterne che le confezionano a livello progettuale e poi curano tutta la parte realizzativa. In questo caso l’esposizione è nata invece da una collaborazione tra il Comitato di San Floriano e l’Amministrazione comunale di Udine. In questa occasione non mi sono occupata della parte tecnico-scientifica che normalmente mi compete, ma di quella logistica. Insieme agli uffici, ho seguito la mostra a partire dalle richieste di prestito, gestendo il rapporto con i musei e i prestatori italiani ed esteri, ho seguito la gara d’appalto per i trasporti e le assicurazioni che nel caso di esposizioni di questo tipo prevedono modalità molto specifiche. Ho seguito tutte le fasi dell’allestimento e sorvegliato la movimentazione dei dipinti e delle sculture date in prestito. Ciò significa redigere un condition report per ogni opera con tanto di fotografia professionale non solo in entrata, ma anche in uscita in maniera tale che non vi siano contestazioni di sorta sullo stato di conservazione della stessa all’inizio e al termine della mostra.

 

A causa dei tagli alla cultura a volte la figura del conservatore responsabile finisce per sovrapporsi a quella direttore. In che modo avviene?

All’interno della Pubblica Amministrazione italiana vi è una figura che è di supporto al dirigente, quella del titolare di posizione organizzativa. Il dirigente individua sulla base di un rapporto fiduciario una persona all’interno del proprio servizio che può aiutarlo nel gestire tutti i procedimenti interni e alla quale può delegare, per legge, alcune delle sue funzioni, tra cui quelle di firma sugli impegni di spesa. A causa dei tagli alla cultura spesso accade che al conservatore responsabile di un museo, quando la figura del direttore viene meno, si attribuiscano anche le funzioni dirigenziali: accanto alle sue competenze tecnico-scientifiche gli vengono richieste conoscenze approfondite di diritto amministrativo e project management. Si tratta di una figura ibrida con un profilo amministrativo e conoscenze storico-artistiche altamente professionalizzanti a cui, tuttavia, non corrisponde un adeguato riconoscimento anche di tipo economico. Oggi al conservatore titolare di posizione organizzativa viene chiesto non solo di curare e conoscere a fondo le collezioni di cui è responsabile studiandole e valorizzandole, ma anche di saper organizzare una mostra, di possedere delle ottime capacità manageriali, saper gestire un budget in maniera tale da spendere oculatamente i soldi pubblici, conoscere a fondo le procedure amministrative della pubblica amministrazione assumendosi tutte le responsabilità di spesa, conservando in tutto ciò una visione quanto più lungimirante possibile. Un tempo la figura del direttore era quella che serviva da raccordo tra tutte queste competenze che oggi vengono spesso distribuite su persone diverse. Mentre il dirigente viene scelto soprattutto per il suo profilo manageriale-amministrativo e, per formazione, non è tenuto a possedere conoscenze tecnico-scientifiche. È un fenomeno che si verifica di continuo soprattutto nei piccoli musei a causa della scarsità di fondi che vengono destinati alla cultura.

 

Dal museo di provincia alla nuova dimensione del museo di oggi, anche in una cittadina come Udine, quali sono gli elementi da tenere in considerazione?

Oggi il museo viene chiamato sempre più a sviluppare il suo ruolo sociale accanto a quello di conservazione, valorizzazione e promozione delle proprie collezioni. Nella contemporaneità esso deve essere un luogo in cui si declinano l’accessibilità, l’inclusione sociale e la sostenibilità ambientale. Spazio ideale in cui poter diminuire la distanza di quelle barriere invisibili che riguardano la cultura, la capacità di accoglienza, la possibilità di comprendere la diversità, esso non può esimersi dalla sua funzione educativa. Deve essere in grado di stimolare sensibilità, curiosità, attenzione nei confronti di determinate problematiche per indurre le persone alla riflessione. Se da un lato è giusto sviluppare attività che ambiscono ad avere un respiro internazionale, attraendo un turismo di massa e quindi cospicui introiti economici, dall’altro è altrettanto fondamentale non dimenticarsi del contesto territoriale in cui il museo si inserisce, al fine di mantenere un forte contatto con la comunità di appartenenza, oggi particolarmente diversificata. Il museo è sempre stato promotore di un’identità, e attualmente questo termine per me va inteso in una nuova accezione. Deve essere un concetto non più fisso ed immutabile, ma che cambia continuamente giorno per giorno e che va costruito all’interno del patrimonio museale rileggendolo costantemente, cambiando le narrazioni che vi soggiacciono attraverso uno storytelling in continua evoluzione.

 

In che modo la dimensione politica incide sulla programmazione dell’attività museale?

A livello teorico l’Amministrazione dovrebbe limitarsi a stabilire le linee guida della propria azione politica in ambito culturale mentre agli uffici dovrebbe spettare la concretizzazione di queste indicazioni attraverso la programmazione e la realizzazione di attività differenziate. In realtà ciò spesso non accade, perché oggi, e parlo a livello generale, l’Amministrazione tende a entrare direttamente nel merito della programmazione che invece dovrebbe rimanere in capo ai tecnici. Tuttavia, è anche vero che attraverso un dialogo e un ascolto costante tra le parti si può arrivare a un compromesso per raggiungere obiettivi che vanno a vantaggio del museo, ma soddisfano anche le aspettative della parte politica.

 

Parlando di un ambito diverso,  vorrei che mi parlasse del rapporto con le opere d’arte e la possibilità di trovarsi in silenzio con le stesse prima dell’inaugurazione di una mostra, spesso privilegio esclusivo dell’artista.

È proprio questo contatto diretto con l’opera d’arte che avviene anche a livello intimo e personale che fa funzionare bene il mio lavoro. Le emozioni, lo stupore, la meraviglia e la fascinazione che provo lavorando a stretto contatto con dei capolavori assoluti è quello che mi fa andare avanti tutti i giorni e dire: adesso vado e combatto perché ci credo. Sono contenta di farlo perché è proprio vivere circondata dalla bellezza che mi fa superare qualsiasi altra considerazione.

 

Una sua visione del museo nel futuro?

Vedo il museo del futuro a stretto contatto con le scuole e il grande pubblico per sviluppare la sua dimensione educativa e divulgativa, ma anche con gli enti di ricerca come le università per incrementare la propria vocazione scientifica. Lo vedo come lo snodo di una rete che guarda all’innovazione, all’accessibilità, alla sostenibilità ambientale e quindi rivolto a sviluppare la sua vocazione sociale.

 

 

Vania Gransinigh