Storie di due violini

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Lo strumento di Svevo e quello di Ettore Schmitz

di Luigi Cataldi

Svevo, come è noto, suonava il violino e vi si esercitò con costanza per gran parte della sua vita. Basta dare una scorsa alla nuova edizione dell’epistolario, appena pubblicata a cura di Simone Ticciardi (Italo Svevo, Lettere, Il Saggiatore 2021), per averne conferma. Egli portava con sé il violino nei suoi soggiorni a Murano e a Charlton dove trascorreva lunghi periodi per conto dell’industria di vernici sottomarine del suocero per la quale lavorava. Nelle lettere (quasi tutte alla moglie fino al 1925, poi in prevalenza indirizzate agli intellettuali che hanno contribuito al suo successo letterario) il pensiero al violino è costante. Si lamenta di non avere il tempo per esercitarsi (12/7/1903) o di non averne la voglia: «il violino non l’ho toccato ancora. Non valeva la pena di farlo viaggiare traverso l’Europa se ha da continuare così» (31/3/1906). Profonda è poi l’insoddisfazione per le proprie doti di esecutore («Suono il violino da quel cane disperato che mi conosci», scrive alla moglie il 23/1/1903) e violenta, di conseguenza, è la sua rabbia («Sono arrivato a un punto critico del violino e vorrei stritolarlo», 29/4/1913). Nelle lettere lo strumento si umanizza. Diviene «la cràzzola» (termine dialettale per “raganella” o “tric-trac”) per il suono sgraziato che produce (10/10/1907). È un compagno onnipresente ma sgradito («Quel rompiscatole sta bene solo. In due stiamo peggio lui e io», 7/9/1907). Ha un pessimo influsso su di lui («Già quel violino sarebbe ora di mandarlo in pezzi. Credo sia causa sua che fumo tanto», 30/4/1913) e sul suo aspetto («Fa un caldo terribile. Spero sia perciò che non presi ancora in mano il violino. Del resto se non lo prendessi mai più in mano sarebbe forse meglio. Avrei un’apparenza meno stupida», 5/9/1913). D’altra parte gli allevia la noia: «Io ho troppo pochi operai [per il lavoro di fabbrica] e stuono allegramente il violino interpolandolo ad ogni tratto ad una sigaretta per alleviarmi la noia che è grande».

Eppure insieme al fratello Elio (nella sua breve vita Elio fu compagno nelle velleità artistiche ed unico lettore e testimone dei progressi dello scrittore) Svevo aveva ricevuto una buona formazione musicale che accrebbe costantemente anche nell’età matura (su Svevo e la musica oltre alle pagine di Enrico Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, si può ricorrere al documentatissimo saggio di Stelio Crise, Un silenzio cantato. Hausmusik e scrittori nella Trieste asburgica, Zecchini 2006). Inoltre egli suonava come secondo violino con un gruppo di buoni dilettanti, in grado di eseguire gli ultimi quartetti di Beethoven. Doveva suonar meglio, insomma, di come vuol farci credere.

Abbiamo sin qui parlato di Svevo, ma sarebbe stato meglio dire Ettore Schmitz. È l’industriale ad andarsere in giro col violino a Trieste e per l’Europa. «Viaggiavo sempre col mio violino e quando sbarcavo a Londra mi guardavano con rispetto alla stazione: Albert-Hall, Whigmore-Hall o Queens-Hall? Invece l’automobile mi portava nel più lontano e fosco dei sobborghi ove andavo a deliziare i vicini coi miei colpi d’arco», scrive in Soggiorno londinese, uno degli scritti autobiografici successivi al successo letterario in cui costruisce il mito della rinuncia alla letteratura a favore del serio e duro mondo degli affari. Ecco come lo spiega a Montale in una celebre lettera del 17/2/1926: «dopo l’insuccesso di Senilità io proprio m’interdissi la letteratura. Usai persino l’accortezza di impedirmi di ricascarci: Studiai il violino e gli dedicai per vent’anni tutto il tempo che avevo libero».

Ma c’è qualcosa che «stuona» anche in questa ricostruzione a posteriori e rivela che Svevo si è solo occultato dietro il signor Schmitz. Per esempio il resoconto già sveviano di una serata trascorsa con gli ospiti della pensione di Londra dove risiede per sovrintendere ai lavori per la costruzione della fabbrica di vernici dei Veneziani in Inghilterra. Lui chiacchiera lieto nel suo inglese ancora precario, soprattutto con l’anziana miss Pains, che gentilmente corregge i suoi errori. «Tutt’ad un tratto, capitato in mezzo a queste babe, posso parlare quanto posso e anche molto ma molto di più. C’è un’altra miss lunga, dura, stecchita che però suona il piano con qualche grazia. Miss Pains cantò!! Fu una pena indicibile. Una vocina che non merita neppure questo nome, alcuna voce, niente, e quel niente malsicuro, malsano e stonato […] M’annoiai tanto col canto e col suono che cominciai a ciarlare e ciarla e ciarla si finì col parlare del violino. Accidenti! Ce n’è uno in casa ed eccomi con un violino che non conosco, dinanzi a musica che non conosco, a suonare nel bello stato d’esercizio in cui sai mi trovo, a suonare in presenza al mio pubblico variopinto, francesi, inglesi, tedeschi, indostani e sud-africani. Io pensavo: Credete che solo gli inglesi sappiano suonare tanto male? Non lo credono più, te lo assicuro» (29/6/1901).

Lettere come questa somigliano piuttosto allo «scribacchiare» di cui egli parla in una pagina di diario: «Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che quella di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall’intimo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualcosa di sincero anatomizzato tutto e non più. Altrimenti si cade, il giorno in cui si crede d’essere autorizzati a prendere la penna, in luoghi comuni e si travia quel luogo proprio che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza.» (Pagine di diario, 2/10/1899, in I.S. Racconti e scritti autobiografici, Mondadori 2004).

Se non altro almeno l’aritmia del violino di Ettore pare la medesima di quella di Zeno, il quale nella Coscienza così la descrive: «So di avere un alto sentimento musicale e non è per affettazione ch’io ricerco la musica più complessa; però il mio stesso alto sentimento musicale m’avverte e m’avvertì da anni, ch’io mai arriverò a sonare in modo da dar piacere a chi m’ascolta. […] C’è una lieve paralisi nel mio organismo, e sul violino si rivela intera e perciò più facilmente guaribile. Anche l’essere più basso quando sa che cosa sieno le terzine, le quartine o le sestine, sa passare dalle une alle altre con esattezza ritmica come il suo occhio sa passare da un colore all’altro. Da me, invece, una di quelle figure, quando l’ho fatta, mi si appiccica e non me ne libero più, così ch’essa s’intrufola nella figura seguente e la sforma. Per mettere al posto giusto le note, io devo battermi il tempo coi piedi e con la testa, ma addio disinvoltura, addio serenità, addio musica».

Eppure in questa confusione fra scrittura e vita, in cui la seconda pare assorbita dalla prima, il violino che «stuona» nel mondo degli affari non è tanto un segno di inferiorità, quanto un segnale della propria alterità rispetto a quel mondo. Serve a dissimulare, è vero, le velleità artistiche imperdonabili in un serio uomo d’affari ma, ancor più, è un segnale del persistere della propria profonda vocazione letteraria; un ribadire ostinato che «fuori della penna non c’è salvezza».

Gabry Benci

Italo Svevo

tecnica mista – collage