Stregati dallo “Strega”

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Un saggio di Gianluigi Simonetti analizza le discutibili modalità di selezione dei testi narrativi di un premio letterario tra i più blasonati

di Gabriella Ziani

 

Nel 1947 il primo vincitore del premio letterario Strega, fondato da Maria e Goffredo Bellonci con il loro ristretto gruppo di “Amici della domenica”, intascò 200 mila lire. Un operaio all’epoca ne guadagnava più o meno 10 mila al mese. Nel 1951 l’assegno raggiunse il milione. Secondo le tabelle di calcolo equivarrebbe a circa 17.500 euro attuali, ma per i tempi si trattava di una cifra da capogiro. Lo scopo degli anfitrioni era mirato: mettere in connessione l’alta letteratura col pubblico vasto, creare una via di scorrimento tra industria culturale e società in preda a depressione post-bellica, e fornire sufficiente rendita al meritevole affinché la sua creatività restasse affrancata da altre più remunerative (e basse) tentazioni.

Oggi uno “Stregato” incassa 5000 euro, noccioline al confronto. Ma nessuno ha da lamentarsi, il premio è scarso ma compensato dalle ricche conseguenze: quell’alloro così mondano è diventato un fenomenale moltiplicatore di reddito, un badge che apre tutte le porte. Al prescelto (da una giuria comunque molto più allargata rispetto ai primi pochi “amici”) si spalancano collaborazioni giornalistiche, la cooptazione del mondo dei media, immediati benefici economici (si possono anche quintuplicare le vendite), oltre che una investitura corporativa, partecipazioni a festival in giro per tutta la penisola, interviste e firmacopie, circolazione sul web, traduzioni, riedizioni economiche, scuole di scrittura, e se va bene (spesso va molto bene) trasposizioni televisive, cinematografiche, teatrali, reading, ospitate ai talk show, rubriche fisse sui settimanali. Un vero affare, oltre che un bel mestiere. È il paratesto che impera, trainato da un romanzo che funziona.

Ma dunque che libro è quello che combatte coi denti (e a man bassa) per vincere in così appetibile mercato? Dev’essere leggibile, amichevole, un po’ di moda sui temi (autobiografie, giornalismo, divulgazione storica, ecologia, drammi familiari, donne, il bene e il male al loro posto, emotività a litri, nessun finale se l’autore non sa bene dove la vicenda vuole andare a parare). Deve presentarsi come passatempo facile, per chi legge magari solo un libro all’anno e si fida del garantito a priori. Deve anche darsi una patina colta, esporre una prudente “vernice” letteraria, e provvedersi dei giusti “ganci” narrativi che – evitando di scadere nei codici fissi del giallo o del rosa – tengano svegli senza stressare. In un libro da premio Strega risultano banditi racconti, prose d’arte, innovazioni linguistiche o sperimentali, azzardi politici, e perfino il taglio comico. In una parola, salvo le dovute eccezioni, il libro “top” ha da essere un dignitoso prodotto commerciale.

Lo dice Gianluigi Simonetti in Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario. Usando i mezzi (finalmente) della critica letteraria, e cioè con metodo scientifico, Simonetti analizza «l’economia del prestigio» con un’indagine di taglio sociologico, prende sei edizioni di Strega e va a vedere di che cosa è fatto il cibo che acquistiamo in libreria, se ha gli ingredienti dichiarati in copertina, se è sano o contraffatto. Docente di Letteratura italiana contemporanea, Letterature comparate e Storia della critica all’Università di Losanna, e già autore di altri saggi d’analisi su narrativa e poesia in Italia, non depreca la tradizione del romanzo “borghese”, non può che approvare la democratizzazione e la diffusione della lettura, ha ammirazione per i Treves e i Mondadori che negli anni Trenta con estremo fiuto (ma il naso sentiva due odori: commercio e qualità letteraria) seppero come ampliare i mercati, e però arriva a una conclusione: oggi siamo al marketing e (quasi) basta. Il libro che serve è «un abito su misura che il marketing può fare indossare a qualsiasi oggetto artistico, indipendentemente dal fatto se sia più o meno riuscito». Uscendo a poca distanza di tempo da Storia confidenziale dell’editoria italiana  di Gian Arturo Ferrari, Album di famiglia di Ernesto Ferrero e La competizione editoriale di Bruno Pischedda (dei quali si è parlato qui nei mesi scorsi) Caccia allo Strega va a costituire quasi uno scaffale aggiornato sulla fabbrica dei libri.

E Simonetti non fa sconti a nessuno, rammentando che già nel 1968 Pier Paolo Pasolini aveva mangiato la foglia, e ritirò la candidatura del suo Teorema, accusando lo Strega di «essere nelle mani dell’arbitrio neocapitalista». Da allora i meccanismi si sono perfezionati e rafforzati, e una parte (mercato) ha preso il sopravvento sull’altra (valore). A dire che un romanzo sia bello o brutto, denuncia Simonetti, non è più qualcuno che con strumenti adatti ponderi un’opera secondo i criteri propri dell’arte (contesto, narrazione, coerenza, linguaggio, rapporto con la tradizione, messaggio). Il suo posto è occupato da «tuttologi» o da colleghi chiamati a fare un favore, insomma senza complimenti questa brigata è composta secondo l’autore da «buttadentro della cultura», e molti di questi prodotti della cultura gli paiono in realtà di sottocultura, scesi cioè a mimare altri mezzi d’espressione, veicolo di altre storie (cinema, tv, fumetto, giornalismo, fantasy, rosa, noir, canzone), e dal calderone emerge il miglior “performer”, uno che farà carriera. Il lettore “debole” resta colpito da quella che giustamente Simonetti chiama una «liturgia spettacolare». Il successo essendo diventato sinonimo di valore, ecco che il lettore acquista il successo, scambiando popolarità con legittimazione critica. «Così – scrive il critico – il premio letterario si mette al servizio della letteratura industriale che era nato per contrastare».

La critica, in questa organizzata compagnia, è del tutto scomparsa, l’autorevolezza si acquisisce a maggioranza, con il numero di followers, e il circuito funziona in andata e ritorno, perché la grancassa che giova a editori e autori favorisce lo Strega stesso, diventato un brand che autoalimenta la propria fama, e la redistribuisce. Industria e mercato hanno fatto un’alleanza senza minacce esterne. Sono molto spesso gli stessi nuovi cooptati a farsi critici-propagandisti recensendo i libri dei propri colleghi, e se già un commentatore professionista oggi non s’azzarda a dire di un libro più che la trama, figurarsi se «cane morde cane» (magari sono, il critico e il criticato, figli della stessa scuderia editoriale). Il colmo s’è già visto: su un noto periodico dedicato ai libri sono apparsi autori che parlano da se stessi del proprio romanzo e ci guardano in faccia da una bella foto in primo piano. Saltata la mediazione critica, è stata smantellata anche quella – ancorché timida e flebile – dell’apparato giornalistico specializzato. Se la fanno e se la cantano, potrebbe dirsi, con espressione malevola. Così le nostre strade di lettori molto spesso sono lastricate di «forme di arte banale e superflua» presentate «come altrettanti capolavori insuperabili, inauditi e necessari».

Spostato il tutto nel campo del consumo, non c’è nemmeno bisogno di buoni scrittori, ma «di svago, evasione, falsa intelligenza», ed è evidente che se lo Strega ha questo potere di brand a valle, a monte avrà per forza quello di attrarre “autori brandizzabili”, cioè adatti al format. Dice Simonetti che scrittori non si nasce, ma si diventa. E non intende dire che lo si diventa scrivendo molto e imparando, bensì che la trasformazione è tutta interna a un meccanismo perfettamente definito.

Per esemplificare, il critico analizza a fondo un po’ di romanzi premiati o in cinquina, salva – seppure con certe riserve – Il colibrì di Sandro Veronesi, dice di Teresa Ciabatti (La più amata, 2017, al secondo posto dopo Le otto montagne di Paolo Cognetti) che scrive «sgangheratamente» mentre il libro è «depositario di un vissuto vivace e interessante», rispetta Via Gemito di Domenico Starnone che nel 2001 emerge a sorpresa inaugurando il filone vincente dell’autobiografismo, prende con le pinze La solitudine dei numeri primi dell’ormai onnipresente Paolo Giordano (2008, un milione di copie e traduzione cinematografica), si ferma senza infierire su Spatriati di Mario Desiati vincitore lo scorso anno, prende a legnate La misura del tempo di Gianrico Carofiglio («Che romanzi così arrivino a disputarsi lo Strega è un fatto che segna – non senza un rintocco sinistro – la misura del tempo: è  proprio il caso di dirlo»), ma soprattutto disintegra Non ti muovere di Margaret Mazzantini (in testa alle classifiche per 65 settimane e nel 2004 trasposto in film da Sergio Castellitto, suo marito).

Dopo ampia disamina di contenuto, stile e linguaggio, la diagnosi è senza appello:  trattasi di  feuilleton melodrammatico. «Il romanzo di Mazzantini – scrive Simonetti – non risparmia nulla al lettore: amour fou, scopate selvagge, gravidanze indesiderate – due, non una, e quasi simultanee -, aborti illegali, stupri in diretta e in differita, abusi infantili, incidenti stradali, arresti (e massaggi) cardiaci, febbri erotiche e setticemie, chirurgia d’urgenza e morti violente…». In più ciò che disturba il critico, insofferente a slavine di metafore, pleonasmi, ossimori, «picchi lacrimevoli», declamazioni, «cozzo di registro aulico e prosaico», «cattivo gusto raggelante», è che «a questo oceano di banalità, volgarità e luoghi comuni […] Mazzantini oppone uno sforzo continuo di sublimazione stilistica: a ricordare agli Amici della domenica che – nonostante l’assurdità delle situazioni, l’enfasi fine a se stessa e la tipizzazione dei personaggi – quella che stiamo leggendo è pur sempre letteratura».

In attesa che anche quest’anno si compia il rito (ben ottanta i libri in fila), Simonetti chiude con tocco ironico: ha tanto studiato l’anatomia del premio che, da vero “stregone”, dice di avere già in mente il prossimo vincitore. Potrebbe scommettere con se stesso, e magari vincere (non lo Strega, però…).

 

 

 

Gianluigi Simonetti

Caccia allo Strega.

Anatomia di un premio letterario

Nottetempo, Roma 2023

  1. 184, euro 17,00