Svevo secondo Covacich

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Lo scrittore triestino tiene lezione all’Istituto italiano di cultura a Parigi

di Fulvio Senardi

 

Chi può negare a uno scrittore, abbia o no un certo talento, e al romanziere triestino questo certo non manca, il diritto di spiegare a modo suo un Grande della letteratura, nel caso specifico Italo Svevo e La Coscienza di Zeno? Si tratta in fondo di mostrare le tappe di avvicinamento, di chiarire come ha intessuto il suo dialogo, traendone alimento, se è il caso, per la propria ispirazione; per fare tutto ciò è lecito evocare ogni suggestione di rincalzo, tanto spinte irresistibili che le provocazioni segrete che hanno condotto a una più profonda comprensione del testo, siano pure voci extra-vaganti rispetto al contesto storico e culturale di Hector Aaron Schmitz (la “collocazione”, diceva l’appena scomparso Blasucci), quali John Coeetze o Lacan. Ogni atto di intelligenza che attira verso il libro un pubblico sempre più estraneo alla carta stampata, devoto a Internet come in passato ai Santi, va salutato con approvazione. Apre delle piste che forse qualcuno vorrà imboccare nella sua una doppia messa a nudo, dell’opera commentata e del commentatore. E se nello spettacolo, organizzato come una lezione di letteratura, con tanto di lavagna e di cattedra ingombra di libri, lo scrittore improvvisatosi maestro scivola, quanto a conoscenza storica, su qualche buccia di banana, come giudicare i suoi “salti di corsia”, con tolleranza o severità?

Va premesso che Covacich tiene ottimamente la scena e il suo Svevo, ampiamente rodato in vari appuntamenti nei teatri della Penisola, regge bene all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi – che dedica a Trieste un mese di iniziative (nessuna meraviglia: lo regge il “nostro” Diego Marani) – e, dopo un’oretta che passa veloce, si avvia, in una grandine di applausi, alla felice conclusione. Un paio di carotaggi  critici gli guadagnano l’approvazione degli esperti: l’ordine non cronologico dell’intreccio, che smaglia il tessuto narrativo come mai o quasi mai (penso a Dossi) prima, nella moderna tradizione letteraria italiana, il tempo nella Coscienza, che si modella sulle pulsazioni interiori.

Peraltro, dirà qualcuno di quei noiosi professori che hanno passato una vita a compulsare pagine di narrativa e di critica, le riflessioni su Svevo e la psicanalisi beccheggiano un po’, sotto la spinta del fluente eloquio (un “borin”?) di Covacich: prima si nega che il grande triestino prendesse sul serio l’astuta invenzione di Freud e poi addirittura lo si interpreta come se avesse frequentato i seminari del mercoledì di Jacques Lacan. Lasciando la curiosità di sapere di chi sia quell’inconscio, ora artificiato ora sorgivo, che trapela e si nasconde tra le righe della Coscienza, fra tanti elusivi e depistanti understatement (peggio ancora, o meglio, come si vuole, in Una vita e Senilità, dove il proverbiale antidoto ironico è meno attivo). E magari, qualche rigoroso linguista, osserverà che il paragone tra Schmitz, Joyce e Coeetze appare, quanto alla lingua, tirato per i capelli: Joyce sapeva il gaelico poco e male ed era a casa nell’inglese come Ben Johnson, Coeetze cresce in una famiglia anglofona e studia nelle scuole inglesi (per entrambi il rimando ad una Ursprache è questione intellettuale ed ideologica, non trasuda amarezza per un sapere posseduto ma rinunciato);  per non dire di Kafka (che Covacich legge con gli occhiali di Deleuze e Guattari), il cui tedesco è la zattera d’angoscia a cui lo scrittore si affida in una Praga sempre più slavizzata (altra cosa dunque rispetto a Trieste, dove l’italiano è maggioritario e prepotente, e la relazione tra lingua ufficiale del Regno d’Italia e dialetto locale si configura, diamo per un attimo licenza ai saputelli, come una “diglossia monocomunitaria non bilanciata”).

Svevo, per venire al consuntivo, parla e pensa in triestino, che però è un dialetto veneto-coloniale di famiglia italica, la lingua dei “domini da mar”, come si diceva a Venezia, la parlata “peninsulare” più vicina, per il suo carattere conservativo, al toscano (più degli altri dialetti settentrionali, più di quelli centro-meridionali, più del sardo): dunque nessun substrato eteroclito, bisbetico, salvatico (è Manzoni che si riferisce al … dialetto milanese), con uno scarto dal pensato allo scritto che è perciò, in fondo, millimetrico.

E lo scrivere male? L’annoso tormentone della critica sveviana (sintassi a tratti tedeschizzante, vocabolario poco cruscante), rubricato oggi tra i falsi problemi, scaturisce all’origine dal dogma puristico che condizionava il giudizio di quei pochi che si occupavano di letteratura in un’Italia ancora troppo analfabeta (un principio che lo stesso Schmitz accetta e interiorizza nella forma di un complesso di inferiorità). Tra il “toscanismo” di Tommaseo (assai letto ed amato in terra “irredenta”) e il culto dell’Idioma gentile (De Amicis, 1905), che esaltava il modello toscano, sia pure condannando ogni cavillosità, vi era poco spazio (anzi, la scomunica) per chi, sul tappeto verde della narrativa, non calava gli assi di Petrarca, Boccaccio, (Dante, i più temerari) e giù giù per il rami. E qualche storico pignolo, avvezzo a spendere le ore, a rischio di bronchite, nella polvere degli archivi, avrà forse da dire su una Dalmazia compresa nell’Ottocento nella Venezia Giulia (meglio: Litorale austriaco), o sul patriziato commerciale fatto coincidere con la minoranza greca (e gli “illirici”, come si diceva dei dalmati e dei serbi, e gli ebrei?, già, soprattutto gli ebrei, completamente perdutisi fuori spettacolo – si consiglia a proposito la lettura di Anna Millo, la migliore studiosa dell’élite del potere nella Trieste asburgica).

Tutto vero, e tutto in fondo irrilevante se un’oretta con Mauro Covacich può instillare in qualcuno curiosità per le pagine fruscianti di un oggetto ormai misterioso, il libro; e quale libro! Ma, se io fossi Covacich (e Dio sa quanto vorrei scambiare i suoi 56 anni con i miei 68 … mi terrei i capelli però), limerei la parte, diciamo “colta” della “lezione”, per raccontare invece di cose mie, più intime e personali. Quei pignoli e quei pedanti che forse sono usciti bofonchiando dall’Hôtel de Galliffet, dovranno pur concedere di aver provato – quando lo scrittore ha toccato il tema di lui ragazzo e di suo padre impegnati insieme, l’uno alle medie, l’altro alle serali, a leggere Pascoli (e con quanta difficoltà!) – un brivido di empatia e una fitta di struggimento, come sempre quando il teatro, o la “lezione”, ci fa rivivere esperienze profondamente, universalmente umane, ci parla della nostra forza e fragilità.

 

Mauro Covacich

all’Istituto italiano

di cultura di Parigi