Io e Lydia

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Due, tre capitoli di Orgoglio e pregiudizio e non ne posso più

di Silvia Zetto Cassano

 

Nasce e vive in spazi ristretti, la signorina Jane Austen. Paesucoli in contee inglesi. Posti dove non succede mai niente. E niente capita nei suoi romanzi. Un niente di convenevoli che si susseguono per pagine e pagine, ringraziamenti, complimenti, scuse, ossequi. Frasi come pasticcini con troppo zucchero e panna montata, come le fette di torta nei caffè asburgici a Vienna, un incanto a guardarle, ma dopo il primo assaggio non ne puoi più.

Due, tre capitoli di Orgoglio e pregiudizio e non ne posso più, ho voglia di lasciare perdere tutto quei gentiluomini e fanciulle, madri, padri, sorelle, cugini, vicini che si spostano da una stanza all’altra, da una casa all’altra, sono ospiti di dimore, passeggiano per parchi ameni, si recano a vedere laghi, sorseggiano tè, si agghindano per i balli. Nessuno sembra avere un’occupazione, nessuno lavora, nessuno va da nessuna parte. Vivono di rendita, tutti parassiti, chi più chi meno.

Niente si muove, nel mondo di Austen. Tutto fa perno su una cosa sola: l’incipit del romanzo è una sorta di sinossi: “È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un buon patrimonio debba necessariamente cercare una moglie.”

Niente si muove, nell’Inghilterra fine Settecento che rimbalza dai romanzi di Austen. Tra i ceti sociali gli sbarramenti sono invalicabili. Quasi invalicabili: un margine può esserci, purché le femmine siano accorte e se ne rendano conto e si giochino bene le poche carte che hanno in mano, quando stanno ai primi gradini del Sistema.

Se ne rende conto anche la signorina Austen, che nel Sistema è avviluppata. Avvolta in una ragnatela dai fili d’acciaio. Si divincola? Non lo fa vedere, al massimo esili movimenti che lasciano la ragnatela intatta. Al massimo qualche goccia di veleno qua e là, celata molto bene. Fa qual che può, non di più, sguscia, infila qualcosa, intrufola divergenze senza che se ne accorga nessuno. Costruisce la sua eroina – Elisabeth – senza che niente appanni la sua impeccabilità, senza che nessuna delle cose che dice o fa riveli il suo desiderio di libertà. Che troverà dentro al matrimonio, che altro? Ma un matrimonio alle sue condizioni. Con l’Amore. Ne sa qualcosa, la signorina Austen? Può darsi. Nelle sue storie c’è, ma non palpita, Eros è il grande assente. Non lo cogli neppure tra le righe. Nessuno dei personaggi ne sembra travolto o quanto meno attratto. Tranne Lydia, la terza delle cinque sorelle Bennet. Le prime due – Jane e Elisabeth – sono belle e brave, hanno nobili sentimenti, intelligenza e quel po’di cultura che, a quel tempo può bastare. Senza farne sfoggio, si capisce.

Ma Lydia è diversa. Poco sappiamo di lei così poco sappiamo di Austen. Mai ci sarà dato di sapere fino a che punto la riservata, rispettabile, educata signorina Austen si sia divertita a nascondersi nella “indomabile, sventata e folle, rumorosa e sfacciata” Lydia a cui, forse, ha affidato la parte più splendente dei suoi desideri. Austen ce la descrive nel nono capitolo.

“Lydia era una quindicenne robusta e ben sviluppata, con una bella carnagione e un’indole allegra. […] Aveva un che di animalesco e una sorta di presunzione naturale che le attenzioni degli ufficiali, ai quali le belle cene a casa di suo zio e i suoi modi disinvolti l’avevano resa gradita, avevano trasformato in sfacciataggine”. Di lei ci racconta anche che stravede per i cappellini, i parasole, i vestiti. Che ha molti desideri frivoli ma tutti vivaci. Che ha immaginazione: Austen, nel descriverla, una volta tanto non usa l’acquerello e i toni sfumati, si lascia andare a quelli accesi, dà una pennellata rosso splendente.

“Nell’immaginazione di Lydia, una vacanza a Brighton esauriva qualsiasi possibile felicità. Vedeva, con l’occhio immaginoso della fantasia, le strade di quel vivace centro di mare costellate di ufficiali. Vedeva se stessa oggetto dell’attenzione di decine e decine di militari per ora sconosciuti. Vedeva tutti gli splendori del campo, le sue tende che si estendevano in bellissime linee uniformi, piene di uomini giovani e allegri, e splendenti di rosso; e, a completare la visione, vedeva se stessa seduta sotto una tenda mentre civettava teneramente con almeno sei ufficiali per volta”.

Sei per volta! Non ama le mezze misure, Lydia. Logico che attiri su di sé giudizi implacabili: è una testa vuota, è stupida, è caparbia e scriteriata, ignorante, pigra e vanitosa, “sempre imprudente e spesso maleducata”. E ride, ride appena può, chiassosamente.

Tuttavia è proprio grazie a lei che l’andamento della storia, placido come uno di quei piccoli fiumi inglesi di scarsa pendenza e verdi prode, ha una scossa e succede finalmente qualcosa: dobbiamo resistere fino al capitolo 46, però, dove la vitale dabbenaggine di Lydia la fa scappare di casa con l’uomo che le piace. Subbuglio, scandalo, ma anche movimento: a ben vedere sia Jane che Elisabeth usciranno dallo stallo amoroso anche per le indirette conseguenze di quella fuga.

È dunque Lydia il deus ex machina che porta al lieto fine in cui gli scapoli in possesso di buon patrimonio trovano ciò che andavano cercando. E le fanciulle anche. Forse.