Per le donne, il cammino è stato senza fine

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di Anna Maria Vinci

 

Molte volte ci raccontiamo del disagio sociale che apre sul nostro cammino delle buche profonde. Accade che, a un tratto, anche coloro che s’illudono di poter godere della propria vita in tranquilla onestà e dignitoso benessere si accorgano di stare in equilibrio su una barchetta malandata. Resisterà alle onde violente e imprevedibili?

Per chi ama la storia e va a cercare le ragioni più profonde dell’umana vicenda, la via dei polverosi archivi rappresenta un’attrazione fatale. È un momento di pace, perché quel tumulto già vissuto non è più o, per lo meno, ci illudiamo si sia impigliato tra le carte sdrucite del tempo. Il risveglio, tuttavia, può essere molto brusco e per nulla piacevole, poiché passato e presente si richiamano attraverso assonanze inattese, scegliendo contorti sentieri.

Se poi volessimo affrontare un’altra questione e cioè quella di perderci negli anfratti più nascosti (o volutamente dimenticati) di una società sia locale sia nazionale, mille domande ci assalgono, lasciandoci storditi.

Che cosa significa ad esempio la fine di una guerra (prima o seconda che sia) per gli uomini e le donne che l’hanno vissuta? Negli ultimi anni la storiografia internazionale si è posta con forza il problema ed è bene allora che anche nel nostro microcosmo si comincino a tendere le reti per un discorso che rappresenti un tassello di un quadro più ampio.

Alcuni anni fa, ho avuto la fortuna di leggere un minuscolo libretto di Charlotte Delbo, Kalavryta delle mille Antigoni, pubblicato in italiano nel 2014 dall’Associazione editoriale Il Filo D’Arianna. La scrittrice francese, troppo poco conosciuta in Italia, nonostante le lodevoli iniziative riguardanti la traduzione di alcuni suoi libri e l’allestimento di mostre (Bergamo, 2016), fu parte attiva della Resistenza del suo paese. Deportata ad Auschwitz, ritornò su quell’esperienza drammatica fino all’ultimo giorno della sua vita, puntando molto spesso l’attenzione sul mondo femminile e sulla forza di solidarietà che dentro quel mondo si configura come un “anello forte”:

Se il nostro convoglio, scrive, ha avuto un così alto numero di sopravvissute (per Birkenau 57 su 229), nel ’43 è un dato eccezionale, unico nella storia del campo, è perché ci conoscevamo già, perché noi formavamo, dentro un grande gruppo compatto, piccoli gruppi strettamente legati, ci aiutavamo in tutte le maniere: darsi il braccio per camminare, sorreggersi, curarsi, anche il solo parlarsi. La parola era difesa, riconforto, speranza. Parlando di ciò che eravamo prima, conservavamo la nostra realtà. Ciascuna delle sopravvissute sa che senza le altre non sarebbe ritornata. (Nessuno di noi ritornerà, Il Filo d’Arianna, Bergamo 2015)

In Kalavryta delle mille Antigoni, la Delbo riporta in scena le donne, quelle che assistono impotenti, insieme ai loro bambini, all’eccidio compiuto dai nazisti nel dicembre del 1943 a Kalavryta, piccoli villaggi e monasteri incastonati tra le montagne del Peloponneso. Saccheggi, incendi, uccisioni; 1300 morti. Le donne, rinchiuse in una scuola e separate dagli uomini, sono lasciate sopravvivere, forse perché – nella visione dei nazisti – avrebbero potuto resistere ben poco tra quelle nude montagne.

Le donne urlano, coprendo il pianto dei bambini piccoli, ma poi, nella narrazione della Delbo, scelgono di esprimere il loro lutto nelle vesti di “nere spigolatrici di morte”, uscendo dai loro rifugi e andando a cercare i corpi dei loro uomini. Le mani delle donne ricompongono lo strazio e poi, dandosi l’un l’altra la voce, raccolgono quei corpi. Antigoni, appunto: il rito antico della sepoltura non può e non deve essere tralasciato. Le mani delle donne, come le foglie dei pioppi dell’epopea omerica, tremano, si muovono veloci e delicate quasi a tessere l’ultimo brano di vita e di dignità. Da quel momento quello che le attende non è solo l’ignoto. Scrive Charlotte Delbo:

Per le donne, il cammino è stato senza fine.

Per gli uomini, il cammino è stato la strada più breve.

La strada più breve dalla vita alla morte per uomini la cui vita non si era compiuta.

Le donne quindi riprendono il cammino con il fardello dei bimbi piccoli e dei più vecchi: il loro futuro è scritto nei passi lenti per affrontare la china di un futuro che non s’intravede.

Spesso, sfogliando le carte d’archivio intorno al dopoguerra giuliano, mi sono tornate in mente proprio queste parole che tracciano i contorni di un’epica lotta contro il male assoluto. Mi sono chiesta quale fosse il paragone possibile con il quadro di sofferenze e di miserie che mi si parava davanti con l’impudenza di una realtà senza veli, contorta e senza gloria.

Ancora una volta, nella pace incerta, sono le donne a tessere il riparo dalle disgrazie, a lenire il lutto delle perdite. Sono tuttavia donne dalle mille sfaccettature: fragili, ammalate, malavitose, tenerissime, malandrine. Figure che raccolgono i segni di ogni possibile contraddizione: madri incerte, nonne e zie ammassate in “una stanza e mezza”. Gli uomini? Stanno sullo sfondo di una guerra che non sa finire: persi in prigionia, malati, violenti, apatici e poi ancora la presenza dei militari tedeschi e alleati in cerca di avventure, di vendetta o di uno straccio di affetto.

Appare in una lettera manoscritta l’immagine di una madre/bambina che esprime il suo dolore con un gesto folle e delicato. Dopo il parto, la donna deve affidare la figlia ad una “tenutaria”: un nome tremendo che evoca altri scenari, ma è questa l’etichetta che viene data alle “allevatrici”. Anch’esse erano donne bisognose: i pochi denari che la provincia erogava a chi si accollava il peso dei bimbi orfani o illegittimi (anche se riconosciuti dalla madre) arrotondavano le entrate familiari, in una fase di disoccupazione crescente. Nonostante fosse il collettore di un profluvio di finanziamenti da parte degli alleati e del governo nazionale, Trieste soffriva, infatti, di prospettive economiche di corto respiro e di provvedimenti – tampone per il lavoro. Se si fa caso alle zone di residenza di questi nuclei familiari disgregati, ci si accorge che la suddivisione in distretti elaborata negli anni venti da Pier Paolo Luzzatto Fegiz rappresenta il quadro di muri insormontabili tra miseria e relativa agiatezza, al di là di ogni cambiamento possibile causato da eventi esterni.

La madre/bambina, dunque [che chiameremo A.]: con grande fastidio, la “tenutaria” lamenta presso l’autorità provinciale la muta presenza di quella ragazza che “non sa far altro – segnala la vigilatrice – che allattare la bimba e trascorso il tempo necessario all’allattamento [l’allevatrice] deve toglierla a viva forza. Non sa né cambiarle i pannolini, né tenerla in braccio”. La giovane A. tace ostinatamente, ma prima di uscire, la “tenutaria” si sente sussurrare “grazie”. A poca distanza di tempo A. dà alla luce un’altra bimba illegittima, ma da lei stessa riconosciuta al pari della prima: di nuovo si ripresenta il problema dell’allattamento, ma questa volta entro le mura dell’Ospedale psichiatrico dove la ragazza/madre viene ricoverata. Sembra una maternità uscita dal pennello di Egon Schiele: angoscioso amore tra creature innocenti, che trovano riparo nell’unico abbraccio vitale loro concesso. L’altra donna percorre, nel frattempo, gli anni (dal 1931 al dopoguerra) di una durissima quotidianità curando entrambe le sorelle e lottando per loro. Le assistenti stilano rapporti, secondo i canoni richiesti dall’Opera nazionale per la protezione della maternità e infanzia, istituzione sopravvissuta all’epoca fascista e osservata da vicino dagli uffici del Governo militare alleato (GMA), che tentano di organizzare, secondo logiche ordinate, il coacervo delle istituzioni giuliane d’assistenza.

“Una stanza, stanzetta e cucina, tenute con ordine e pulite” rappresentano lo spazio entro cui convivono negli anni Cinquanta le due ragazze, ormai orfane, e i figli della stessa“allevatrice” e di suo marito. Si fa presto a giudicare fastidiose le insistenti richieste di soccorso che quest’ultima rivolge alla Provincia, all’ONMI (nella sua antica/nuova veste), su stentati foglietti manoscritti che firma lei sola: la Provincia non sostiene più con continuità gli “illegittimi” dopo il quattordicesimo anno d’età, secondo la legislazione del passato fascista; l’ONMI eroga con parsimonia. E intanto almeno una delle orfane vorrebbe studiare, magari senza pretese, verso la conclusione del ciclo scolastico rappresentato dall’avviamento commerciale. Per il capofamiglia bussa tuttavia alla porta lo spettro della disoccupazione, portando con sé il peso di malattie (TBC), sconfitte solo entro certi limiti e non in tutti i distretti della città. “La minore non frequenta più la scuola”, scrive poco dopo l’assistente sociale nei suoi periodici resoconti all’ONMI. A metà anni Cinquanta cominciano ad aprirsi degli spiragli per il lavoro e la fragilissima e composita famiglia può ritornare a galla, sia pur sull’onda di una costante incertezza. Sono passati più di vent’anni per una storia che, come moltissime altre scovate negli archivi, mostra il sottofondo oscuro di una città in cui i conflitti politici mascherano appena una disastrosa realtà sociale.

Che percorso di vita avranno avuto i minori allevati dalle mani delle “tenutarie”, volonterose o interessate, affettuose o indurite dalla miseria? I bambini spesso passano da una “tenutaria” all’altra, perché il loro lieve peso, nonostante i contributi di un welfare zoppicante e frammentato, è comunque troppo per le condizioni economiche di donne spesso anziane o colpite da malattie e disgrazie. E che sorte per le ragazze e i ragazzi passati attraverso orfanotrofi, collegi e riformatori, sparsi in tutta Italia? E quale vita per le madri abbandoniche, dopo una scelta spesso obbligata di distacco dalle loro creature?

Le preziose carte si fermano, com’è ovvio, alla fine dell’erogazione dei contributi, ma quelle vite s’incuneano nel futuro della città e del Paese. Testimonianze scritte o orali sarebbero importanti per una storia che è ancora ampiamente in ombra.