Todo modo: il lungo esilio di un film eretico

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di Stefano Crisafulli

 

Quando Todo modo uscì, nel 1976, fece grande scandalo, tanto che venne visto da pochi e per poco tempo: durò esattamente un mese nelle sale italiane, prima di essere ritirato e sequestrato e, in seguito, mai più riproposto, né al cinema né alla televisione. Ancora oggi possiamo averne una versione in dvd, ma il suo sguardo eretico non è ancora visibile facilmente in altre forme: per fortuna c’è la cineteca di Bologna che ha avuto il coraggio di restaurarlo e di rimetterlo in circolo nelle sale qualche anno fa ed è proprio in una di queste sale, presso il cinema Ariston di Trieste, che ho potuto vederlo per la prima volta. In effetti, alla fine di Todo modo, ho capito il perché di tanto scandalo: si tratta di un atto d’accusa, nella forma grottesca che il regista Elio Petri ha voluto dare al romanzo di Sciascia da cui il film è tratto, alla classe politica che governava all’epoca, ovvero, in primis, alla Democrazia Cristiana. E fu questo atto d’accusa a determinare l’ostracismo intransigente che ha costretto questa pellicola all’anonimato sociale e, persino, al rogo. Del resto la storia e l’ambientazione sono già di per sé intrise di ombre sulfuree e il periodo storico non aveva certo favorito la diffusione dell’opera: due anni dopo, nel 1978, ci sarebbe stato il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e fu questo avvenimento tragico a bloccare del tutto la possibile ricomparsa del film di Petri.

Anche perché Aldo Moro nel film c’è, sia pur mai nominato esplicitamente e interpretato dal solito grande Gian Maria Volonté con estrema accuratezza e verosimiglianza. Non era certo la prima volta che il confronto attoriale tra Volonté e le figure del potere andava in scena, basti pensare all’Enrico Mattei dell’omonimo ‘caso’ di Rosi, ma mai come questa volta l’identificazione tra attore e personaggio risultava sin troppo perfetta, tanto da dover eliminare alcune scene. E poi ci sono, trasfigurati, tutti gli altri esponenti della DC, anch’essa mai nominata. La trama è a metà tra il noir e la farsa grottesca: mentre in Italia imperversa un’epidemia, in una residenza di gesuiti diretta da Don Gaetano (Marcello Mastroianni) si radunano politici di primo piano per un ritiro spirituale. Dovranno svolgere gli esercizi di Ignazio di Loyola all’interno di una residenza sotterranea, abitando in camere simili a celle monastiche e cenando in una grande sala comune. In realtà il ritiro è l’occasione di una resa dei conti e i giochi di potere sconfinano in una serie di misteriosi delitti. Finirà in una carneficina la cui simbologia profetica oggi è più evidente.

Oltre ai già citati Volonté e Mastroianni, il cast di Todo Modo fa impressione: nel film appaiono, in vari ruoli, Michel Piccoli, Mariangela Melato, Franco Citti e, soprattutto, il Ciccio Ingrassia che non ti aspetti. Ingrassia aveva già dato prova di uscire dallo stereotipo comico delle sue parodie con Franco Franchi due anni prima, in Amarcord di Fellini, ma qui è stupefacente nel cambiare registro e modalità recitativa: non a caso ricevette il premio come miglior attore non protagonista ai Nastri d’Argento. Pochi, però, poterono vederlo. Forse l’esilio artistico di Todo Modo non è dovuto solo al fatto che la classe politica di allora fosse stata presa di mira, ma che queste carneficine metaforiche (e non) siano costitutive del potere inteso in senso più ampio. Un potere dalla doppia morale, che si abbandona a rituali di mortificazione per espiare colpe più o meno terribili ed evitabili, se solo lo volesse davvero.