L’Art Nouveau di Mucha a Roma

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Un artista sfaccettato e complesso, rigoroso e affascinante

Un percorso creativo ricco e articolato

di Anna Calonico

 

Tra le tante mostre da vedere in quest’afosa estate non può mancare quella dedicata ad Alphonse Mucha (1860-1939) accanto all’assolato Altare della Patria, nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano, anche se divide lo spazio con l’esposizione, meno “culturale” ma certo simpatica, Barbie the icon, sulla bambola più famosa e più modaiola del mondo.

Inaugurata a metà aprile, la mostra è divisa in sei sezioni che intendono mettere in luce ognuna un aspetto importante della personalità dell’uomo e dell’artista fino a fondere insieme ogni parte per mostrarci un artista sfaccettato e complesso, rigoroso e affascinante.

Trasferitosi a Parigi nel momento in cui il fenomeno decorativo dell’Art nouveau stava compiendo i primi passi, il pittore ceco contribuì a dar vita a questa nuova corrente con il suo stile seducente e pieno di fiori (la prima sezione della mostra: “Un boemo a Parigi”). La bellezza e la precisione dei suoi temi floreali, così come di quelli geometrici, non sono fini a se stesse, servono per decorare come cornici opere spesso di grandi dimensioni, servono come sfondo a numerose immagini di fanciulle dall’aspetto languido: basti pensare ai pannelli delle Quattro stagioni, o alle Quattro arti. In essi, Inverno, Primavera, Estate e Autunno, così come la Poesia, la Danza, la Musica, la Pittura, sono rappresentate da ragazze con lunghi capelli in parte alzati dal vento, in parte che scendono morbidi lungo le curve del corpo, coperto da abitini leggeri e decorati di fiori. Non sono sempre rivolte con lo sguardo allo spettatore, ma sia che gli occhi siano rivolti avanti, sia che si perdano nella natura fiorita che le circonda, si offrono serene e conturbanti all’ammirazione di quanti rimangono affascinati di fronte ad una di queste tele osservando i movimenti caldi delle mani o i piedi nudi di queste giovani donne.

Nel 1894, anno di svolta, Alphonse Mucha riceve l’incarico di preparare il manifesto per Gismonda, un’opera teatrale con “la divina” Sarah Bernhardt come protagonista. È il successo: il cartellone gli procura grandi applausi, complimenti, e un contratto per sei anni voluto dalla stessa Bernhardt. L’attrice sostiene che il solo Mucha è riuscito a riprodurre la sua personalità e la sua anima e gli chiede di essere il suo unico ritrattista per i manifesti seguenti: diventa, come dice il titolo della seconda sezione della mostra, “un creatore di immagini per il grande pubblico” e dal suo genio creativo escono cartelloni per opere teatrali come La dame aux camelias, Lorenzaccio, La Tosca, Medea. Sono soltanto alcune delle opere portate in teatro dalla Bernhardt con l’aiuto pubblicitario di Mucha; l’impostazione è quasi sempre uguale: inserita in una grande cornice a complessi motivi vegetali, l’attrice spicca a figura intera nei panni da protagonista, seria e sensuale, altera ed irraggiungibile, con appena pochi accenni alla trama: una camelia tra i capelli, un cadavere in posizione scomposta ai suoi piedi. Diventa il più famoso creatore di manifesti al mondo, è autore di intere scenografie e addirittura di gioielli che la stessa Bernhardt indossa durante le recite. Nell’esposizione romana si possono ammirare anche alcuni di questi preziosi monili, compresa una collana disegnata per la moglie Maria Chytilova, molto più giovane di lui, che possiamo vedere anche in alcune fotografie di famiglia.

Sempre a Parigi, forte del plauso del pubblico, inizia anche il suo lavoro di illustratore pubblicitario, firmando una lunga serie di lavori con il biscottificio Lefèvre – Utile, le cui scatole decorate troviamo nelle sale del Vittoriano insieme a profumi e bottiglie di champagne.

Altro avvenimento importante durante il soggiorno parigino è l’iniziazione alla massoneria, che fa di lui un autore (ancora) più introverso, a volte oscuro. Denso di particolari, di simboli, amante di metafore e profondamente mistico: un’intera sezione dell’esposizione è dedicata a tale aspetto di Mucha, che certo non è separabile dal resto della sua arte.

Il suo grande idealismo si fonde quindi con ideali di tipo massone ma anche con un grande patriottismo: il suo più grande sogno, quello di uno Stato Slavo libero da governi stranieri, da sfruttamento, da colonialismo, da prepotenze che schiacciano le minoranze, uno stato indipendente capace di vivere con le sue tradizioni, le sue varie culture, la sua fratellanza, diventa quasi un’ossessione per l’artista, che per anni sogna e lavora a opere cui affida il compito di esaltare questa sua utopia: l’Epopea slava, cui lavora dal 1911 fino al 1928, consiste in una serie di venti tele di grandi dimensioni su alcuni degli eventi più importanti della storia slava a partire dal terzo secolo. La volontà di Mucha era di esporre le sue fatiche al Palazzo dell’Industria di Praga ma, a causa delle eccessive dimensioni prima, e dell’avvento del nazismo poi, le tele furono conservate e nascoste altrove, anche nel castello di Zbiroh in Boemia, dove erano nate. Considerato il suo capolavoro, l’Epopea Slava dimostra come, concordando con l’artista, l’arte abbia un ruolo di primissimo piano nella cultura e nella diffusione di essa, un grande potere, culturale, politico e di comunicazione con il pubblico. Per dare vita a questo ciclo monumentale, l’artista viaggiò molto, passando dalla Russia alla Polonia, alla Serbia, alla Bulgaria, portando sempre con sé un album da disegno e una macchina fotografica in modo da immortalare volti e monumenti, paesaggi e scene di vita che lui stesso, a lavoro finito, dividerà in tre tematiche: religiose, culturali, allegoriche. Moltissimi, naturalmente, i disegni preparatori in mostra a Roma, e non mancano alcune versioni di quella che viene considerata forse la tela più importante dell’intera saga: L’abolizione della schiavitù, una di quelle a carattere allegorico che decise di dipingere dopo aver visto l’immensa povertà delle campagne russe, riferendosi all’editto del 1861 dello zar Alessandro II. Nell’opera, la possibilità di un futuro migliore e più giusto è rappresentata da un raggio di sole che piano oltrepassa la fitta nebbia. Altra tela notevole è Apoteosi degli slavi, in cui la possente figura a torso nudo, sorretta alle spalle da Gesù Cristo, rappresenta la nascente Repubblica, mentre, immersi in una forte luce, i soldati cechi e slovacchi guidano vittoriosi il popolo. Curioso, però, che in tutte le sue opere le persone ritratte, quelle figure che stanno a rappresentare il popolo che finalmente può avere una vita più soddisfacente abbiano quasi sempre un’espressione quasi afflitta, o di certo non entusiasta, come invece era l’artista: ne è un esempio anche L’introduzione della liturgia slava nella Grande Moravia, una delle prime tele, in cui ancora risalta una figura a petto nudo, un giovane che alza una mano chiusa a pugno e l’altra che trattiene un cerchio dorato, a simboleggiare la forza e l’unità del popolo slavo.

Ci si avvia all’uscita dell’esposizione avendo visto oltre 200 opere, tra dipinti, disegni, manifesti, litografie, gioielli, arredi, opere decorative: quanto basta per restare soddisfatti e per conoscere un artista forse non abbastanza noto.