TRIANGOLI ROSSI
L’ecatombe degli oppositori al nazi-fascismo

| | |

pahorBoris Pahor ha voluto scriverne di nuovo, stavolta in italiano: scrivere dei “Triangoli rossi”, di coloro che erano stati deportati nei lager nazisti perché si erano opposti. Antonio Gramsci, nel 1917, riprende una citazione da Hebbel e chiarisce: “Vivere vuol dire essere partigiani.[…] L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […] Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti […] non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. […] poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

I “Triangoli rossi” erano partigiani della libertà. Non sono rimasti indifferenti. Pahor, uno di loro, che fino a oggi, ai suoi centodue anni compiuti, non è rimasto indifferente, ha voluto testimoniare, con questo testo sui campi di concentramento dimenticati, il sacrificio degli oppositori che non hanno accettato passivamente il progetto di distruzione e di supremazia di Mussolini e Hitler, che non volevano rimanere indifferenti. Un grande poeta della resistenza slovena, Karel Destovnik Kajuh, caduto durante la guerra di liberazione, aveva scritto in un sonetto, dedicato alla madre di un partigiano caduto:

Lepo je veš, mama, lepo je živeti, / a za kar sem umrl, / bi hotel še enkrat umreti…

È bello, sai, mamma, è bello vivere, / ma per la causa, per la quale sono morto, / vorrei ancora morire…

È questo il senso più alto di questa nuova, appassionata testimonianza che Pahor ci offre in forma documentaria, dedicandola a coloro che hanno indossato l’uniforme zebrata con il triangolo rosso della lotta cucito sul petto. Il volume di Boris Pahor, alla cui stesura ho avuto l’onore di collaborare, è nato perché il direttore editoriale della Bompiani, Elisabetta Sgarbi, ha invitato più volte l’autore a scriverne. Il testo è uscito in maggio e in agosto, per il compleanno di Pahor, il suo editore di riferimento sloveno, la Cankarjeva založba (del gruppo editoriale Mladinska knjiga) di Lubiana ne ha pubblicato la versione slovena con il titolo Rdeči trikotniki. L’uscita contemporanea nelle due lingue rappresenta un momento di grande valore etico, di cui si è avuta testimonianza agli inizi di ottobre, alla presentazione dei due volumi alla Risiera di San Sabba a Trieste, in una città che la componente slovena ha contribuito a far crescere nel corso della storia e fino ai giorni nostri.

Il volume è diviso in due parti (la prima riguarda l’esperienza personale dell’autore) e in esso Pahor racconta con uno stile toccante, appassionato e conciso la storia dei Triangoli rossi. Il suo amico e compagno di deportazione, Stephan Hessel si chiese, in quel librino straordinario dal titolo significativo Indignatevi!, dove siano finiti i valori tramandati dalla Resistenza, dove sia la voglia di giustizia e di uguaglianza, dove sia finita l’idea di una società del progresso per tutti. Da qui l’appello alle giovani generazioni a “rivoltarsi” e a “impegnarsi”: questo è anche il senso della letteratura, della vita, del pensiero di Boris Pahor. La sua storia, ampliata nelle sue opere da molte storie e intrecci di persone, eventi, correnti in cui Pahor si è trovato coinvolto, è la storia di un cittadino di Trieste in cui si riflette anche la storia della parte più occidentale della comunità nazionale slovena, costretta a un incessante impegno per il diritto alla propria esistenza linguistica e culturale. E parte da qui il suo dramma, il dramma della sua comunità. Degli umiliati e degli offesi. Ha scritto a questo proposito Elisabetta Sgarbi: “Pahor è testimone secolare di una vicenda drammatica e ancora non sufficientemente raccontata, quella del popolo sloveno. A Pahor va il merito di averla sottolineata con forza, con urgenza e, soprattutto, con la potenza della Letteratura. Riuscire a dare testimonianza delle fatiche di un popolo attraverso la letteratura ha una importanza epocale, universale, insostituibile. Di questo Pahor va ringraziato e omaggiato dai contemporanei e per questo dovrà essere ricordato dai posteri. Come Pasternak, come Primo Levi, come Fenoglio.

Pahor racconta ancora una volta il pellegrinaggio tra le ombre dei compagni che non sono tornati, rivivendo e ridisegnando nella libertà spazi che sono stati quelli della morte, della dignità negata, del forno crematorio, delle ceneri, delle ossa humiliata. È sorprendente la lucidità con la quale, pur non riuscendo mai a togliersi la giubba del deportato, egli riesca a definire il rapporto con il proprio vissuto e, nel contempo, la propria scrittura (Corriere della sera il 14 febbraio 2008, in un’intervista con Carlotta Niccolini) come “un’operazione igienica” così pure, però, necessità di far conoscere la verità, specie su quei deportati, definiti Nacht und Nebel o Triangoli rossi”.

Il discorso letterario di Boris Pahor sa essere epico e lirico nel contempo e ci mette difronte alla sofferenza in nome del predominio. Della ribellione in nome della liberta’, definendo la memoria rivoluzionaria contro le vittime dei totalitarismi del Novecento, per non dimenticare: „Avere sul petto il triangolo rosso significava che avevo scelto di oppormi in nome della liberta“, egli scrive. Potremmo dire, citando Manzoni: “Ci pone di fronte […] a uomini che pensano e soffrono, non illustrandone soltanto l’azione, ma i sentimenti e la coscienza.” Pahor è, infatti, un narratore degli orrori, ma vi sono delle grandi pagine liriche nel suo racconto. Anche quelle dedicate al dolore. Di cui parla con profondo rispetto e mai con la rabbia di chi non riesce a staccarsene. Dirà, ancora alla Niccolini: “Ciò che qui è rimasto dei vasi con la cenere dovrebbe essere portato in processione nelle città… gli uomini in divisa a strisce con gli zoccoli ai piedi dovrebbero montare la guardia d’onore ai vasi rossastri in tutte le piazze principali delle metropoli tedesche e non tedesche.”

Anche in questo volume l’autore presenta la morte come compagna ineluttabile della sua vita e ci fa vivere l’orizzonte dei Triangoli rossi, sospeso in un senso di nihil quotidiano, non seguendo ancora una volta dunque la via dell’astrazione formale ma piuttosto quella del rendere reale la deformazione della realtà che il lager rappresenta. E ancora una volta, dedicando questo testo ai giovani e avendolo voluto in forma di vademecum, egli crede nella parola come via che ci porterà verso una società totalmente liberata dagli orrori. Ci crede perché ancora una volta vuole addossarsi la responsabilità di rendere partecipe anche un altro essere umano di questa “realtà inimmaginabile” che è stato costretto a vivere e quindi pure a testimoniare.