Riflessioni di confine

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Trieste Selvatica e un nuovo umanesimo

di Martina Vocci

 

Viviamo in terre complicate: piene di Storia e di storie. Sono luoghi in cui le genti sono passate e hanno lasciato profonde tracce, solchi ben visibili nel paesaggio, nelle case e nelle pietre, tracce della fatica profusa per rendere questo territorio non sempre accogliente la propria casa costruita. O forse sarebbe più opportuno dire ri-costruita da chi ha combattuto contro i Turchi, la peste nera e ancora in tempi più recenti i nazionalismi. Battaglie quasi sempre accompagnate dalla più nera povertà, quella lotta cruda di chi non sa come mettere insieme il pranzo con la cena. Sono terre di genti oneste, grandi lavoratori che si rimboccano le maniche e con il “sudore della fronte” mettono a tavola un pezzo di pane caldo appena sfornato. Perché è così importante il pane? Ecco, i motivi sono tanti e simbolicamente significativi, ma più di tutto me ne vengono in mente due: quella farina viene dal grano frutto del duro lavoro nel campo durante l’estate, affidandosi al cielo per la buona riuscita del raccolto, un atto di fede necessario per qualsiasi contadino; e la necessità comunitaria che si esprime nel lievito, che andava nutrito e accudito come un bene prezioso, e se non c’era bisognava chiederlo a qualche vicino di casa. Stava alle grandi donne poi fare la magia e rendere quell’impasto di fatica e grano nutrimento per l’intera famiglia.

Questi sono i messaggi semplici che stiamo perdendo giorno dopo giorno ed è, forse, qui che sta il vero segreto di ciò che tutti abbiamo in comune. Abbiamo sbagliato così tante volte prima di capire qual era il modo per piantare un pomodoro o non farlo bruciare dalle brume tardo primaverili o ancora dal sole (la nostra terra gravida e feconda sta diventando più dura del deserto, sarà molto difficile tornare indietro, non abbiamo un pianeta “B”. Perché siamo tutti custodi dell’identità e dei saperi di un territorio, tutti possediamo parti fondamentali per ricomporre quel mosaico di genti e culture che rendono unico il nostro mondo di confine. Io sono fiera di essere italiana, sono orgogliosa di parlare la lingua di Dante e capire le sue stelle, ma sono anche curiosa di conoscere l’Altro e qualunque cosa sia diversa da me e dal mio modo di piantare i pomodori. Ed è proprio il motore della curiosità a spingere la narrazione di Luigi Nacci che ci porta all’altro, verso l’altro ma soprattutto ci fa stare con l’altro, magari a scambiarci consigli su come coltivare il grano. E allora, camminiamo, ma soprattutto parliamo con la gente, quella che si incontra ai bordi delle strade e – se gli porteremo il dovuto rispetto – ricambierà la nostra gentilezza facendoci sedere al suo tavolo per bere un po’ di quell’ “aspro vino” unendo qualche parola a un pezzo di pane e pomodoro condito con l’olio d’oliva. Sarà solo a quella tavola che capiremo davvero che bisogna guardarsi negli occhi per riconoscerci umani dietro a quello sguardo duro, coperto dal velo di malinconia che conosce solo chi sa che a tradirti potrebbe essere il tuo stesso vicino, o tuo padre, tuo fratello. Questo è un peso duro da portare, una spada di Damocle che minaccia sempre la gente di confine.

I messaggi semplici, dicevo, sono ciò di cui abbiamo bisogno, perché più apriamo i confini più si moltiplicano davanti ai nostri occhi: sono sempre più vicini (se non già oltre) la soglia di casa e ci impediscono di uscire e godere della bellezza del mondo che ci circonda. Ecco perché Scipio Slataper amava la campagna, la rozzezza di Occisla, un luogo di solidarietà e mutua assistenza, senza fronzoli; un tacito sposalizio di genti nella gioia del raccolto abbondante e nella difficoltà della carestia che si accompagna al terribile suono del ghiaccio, che per esempio, può portarsi via in pochi secondi il sogno di mangiare prima o poi qualcosa. Azzardo che forse si stava meglio quando ancora si conosceva la fame, pur ammettendo che anche quella fa fare cose orribili soprattutto come vendetta per presunte angherie ritenute ingiuste da chi le ha subite.

Ma il mio, insieme a quello di Luigi Nacci, è un messaggio di speranza che vuole andare alla radice delle nostre radici: siamo gente divertente, noi esseri di frontiera, raccontiamo barzellette e siamo simpatiche canaglie forgiate dalla durezza della vita, ma che alla fine – come Charlot – riescono sempre a strappare una risata alla nostra platea.

Certo, abbiamo bisogno di buoni maestri che come Luigi Nacci ci mostrino la strada, un invito delicato e soave che si unisce a quello di Paolo Rumiz e il suo “filo infinito” (Il filo infinito, Feltrinelli, Milano, 2019). Rumiz ci esorta a fare un balzo indietro nel tempo e tuffarci nei monasteri medievali per riscoprire, attraverso cultura e coltura, le radici comuni di un’Europa in profonda crisi. Beh, devo ammettere che Trieste dovrebbe dirsi fiera di questi buoni maestri che ancora oggi riescono a leggere il mondo partendo dalle straordinarie vie della nostra città e dai suoi boschi. Qualche mese fa, il neo ottantenne Claudio Magris a proposito di Svevo ha detto “aveva visto il nulla, il niente, l’assenza del desiderio. Perché aveva capito che la cosa più terribile non è non essere amati ma non amare”.

Trieste Selvatica, allora, non è solo l’azzeccato titolo di un brillante e ironico capolavoro sulle terre di confine, ma una nuova categoria per vivere diversamente la frontiera riappropriandoci di un’etica che possa fungere da base per una piccola e necessaria rivoluzione. Le sue sembianze potrebbero essere un nuovo umanesimo in cui riconoscerci, perché tutti abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa, abbiamo bisogno di appartenere, fosse anche alla specie bislacca e sofferente del bastardo di frontiera. Perché lo schema della paura funziona in modo banale e perverso: abbiamo paura di ciò che non vediamo che si affianca al timore di intravedere anche solo per un interminabile istante la cattiveria di un altro essere umano, che con grande probabilità è più spaventato di noi. Per questo motivo, l’invito a perdersi è ciò che di più saggio si possa desiderare (l’etimologia di desiderio è latina, de-sidera “dalle stelle” dove non c’è niente di scritto ma solo pure emozioni). E si unisce a un altro luminoso consiglio: “per conoscere queste terre bisogna alzare bandiera bianca, arrendersi” smettere di gareggiare a chi ha sofferto di più o chi ha contato più morti. Dobbiamo arrenderci alla polvere dei nostri amati defunti, ma non a quella delle strade con panorami mozzafiato pronti a svelarsi a noi che le dobbiamo ancora percorrere.

Sarà il vento a ricomporci: la bora scura che soffia sul nostro triste e doloroso passato – come in quei giorni nemmeno aiuta l’ombrello che, triste e dinoccolato, spunta dai cestini sparsi nelle sontuose strade cittadine. Ma anche quel borino leggero e frizzante che non creerà la polvere di mare danzando sul golfo, ma ci farà vedere lontano grazie a quella luce cosi tersa e pulita che ci permette di lanciare lo sguardo al di là di ogni confine.

Ha detto Marco Paolini “L’Iliade è perfetta. Tutto il resto è Odissea“. Anche noi, forse, abbiamo bisogno di perderci per ritrovarci e guardare insieme al futuro.

Grazie Luigi e buon vento!