Trieste, vista con Spirito

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Giornalista e scrittore, Pietro Spirito mette in scena personalità, spesso dimenticate, vissute nella città giuliana

di Fulvio Senardi

 

Che Trieste sia ormai diventata un tema canonico della riflessione storica e della narrativa lo testimonia il nuovo libro di Pietro Spirito, Gente di Trieste. A chi non ne sia convinto basta scorrere la bibliografia di questo romanzo-saggio per rendersene conto. Morris, Benussi, Covacich, Nacci, Tolusso, Mughini (ed altri ancora, insuperabilmente: Magris-Ara; goffamente: Pizzi) hanno tutti voluto dire la propria su una città che sembra sfuggire ad una precisa rubricazione, dove ogni cosa, citiamo Slataper, un grande classico della riflessione identitaria, è duplice o triplice, dove il paradosso e l’aporia sono realtà quotidiane.

Una città che sogna una funicolare per raggiungere il Carso per via aerea ma non è capace di far marciare un trenino sulle pendici del colle di Scorcola, pretende un faraonico “parco del mare” e non riesce a fare dell’acquario sulle Rive qualcosa di meglio della vaschetta con i pesci rossi che molti hanno in casa, si crogiola nell’idea di un Museo della Letteratura e lascia marcire (letteralmente) un patrimonio librario invidiabile; una città, infine, che mentre va lentamente spegnendosi sul piano demografico (ha oggi un quinto di abitanti in meno rispetto alla vigilia della Grande Guerra) è diventata un “genere letterario”: “città di carta” dunque (ma non la vorremmo piuttosto concreta, vitale, propositiva?) come hanno scritto e descritto in belle pagine Pellegrini, Adamo, Cimador. Diceva Hegel che l’uccello della sapienza si fa vedere al tramonto, ed è questo forse il nostro caso.

Un’eccezione: a proposito della “città della scienza” (che poco comunica però con la città vera che la ospita), perché, spiega Spirito, «oggi la scienza a Trieste è l’unica pianta concimata nei terreni melmosi della modernità che a dispetto di tante tempeste politiche continua a dare frutti». Un “Sistema Trieste”, articolato per centri e istituti di ricerca, scuole di studi avanzati, facoltà universitarie e che impegna «oltre cinquemila fra ricercatori e docenti», molti dei quali stranieri. Ed è qui che Trieste ritrova qualcosa di quel cosmopolitismo dei secoli passati, prima che con manganello, l’olio di ricino e le fiamme si cercasse, non senza successo, di ridurla ad una dimensione mono-etnica (finalità che si appoggiava a una fantasiosa sponda storiografica; Cavalli, Tamaro, Cecovini, che vogliono Trieste italiana, anzi italianissima fin dall’alto Medioevo).

Spirito lo sa bene e lo racconta con quel tratto scorrevole di narratore-giornalista che lo contraddistingue: il suo libro è fatto di medaglioni, quasi piccole monografie dove la competenza storica (con qualche minima smagliatura, ma non saremo pedanti, vero?) e l’estro narrativo contribuiscono a darci un’opera piacevole e nutriente. Due sono gli assunti impliciti del suo discorso: il primo è che la città adriatica ha dato il meglio di sé quando in essa convivevano gruppi nazionali diversi, sotto la garanzia di reciproca tolleranza offerta dalla corona imperiale asburgica; in fondo l’idea del Tommaseo risorgimentale: «Di tre valenti popoli,/ figlia, sorella ed ospite/ Tali destin’ la vigile/ industria e Dio ti fe’», Trieste, 1868.

Perché il Risorgimento, come non cessa di ribadire Emilio Gentile, «è stato il momento più europeo della storia d’Italia. Tutti i suoi artefici erano figli di una cultura cosmopolita» (qui da un’intervista del 17 marzo scorso). Creata dunque la città-porto, per lungimirante arbitrio di Casa d’Austria, arrivarono i “triestini” (non sapevano ancora di esserlo), chi col tricorno, chi col turbante, chi con il fez, chi col fazzolettone della gente di mare, molti con il kippah nella tasca e Jahvé nel cuore, chi venendo d’oltre Isonzo, chi dal Carso sloveno, chi d’Oltralpe, chi dalla Grecia e dall’Oriente. Cominciarono a sentirsi a casa, determinarono la matrice di tolleranza di una città che ha chiese di ogni confessione cristiana (e che assai poco crede nel “peccato”, se non in quello della miseria), una sinagoga tra le più imponenti del continente (ed ora anche una moschea), modellandone l’inconfondibile impronta borghese quando il resto d’Europa viveva ancora nel clima di decadenza nobiliare dell’Ancien Régime; il desiderio di arricchirsi, gli spiriti animali dell’economia liberista del Settecento, come allegorizzati nella Favola delle api, il demone dell’emulazione e del prestigio sociale (insieme con le generose franchigie imperiali) spinsero i triestini alla creatività commerciale e industriale. Che, fin quando resse l’emporio cosmopolita con la sua aperta mentalità, prima cioè della fiammata libertario-nazionalistica dell’Ottocento (da allora i vicini di casa cominciarono a guardarsi in cagnesco, italiani e sloveni soprattutto), fece della città un favo industre di operosità e imprenditoria.

Spirito segue alcuni percorsi emblematici del carattere originario di Trieste-Triest-Trst (a proposito: c’è un libro con questo titolo, di Morissey, Rinner, Strafner, edizioni Umbruch, Vienna, 1992): Weyprecht, l’esploratore polare; Lindner, lo scopritore delle grotte di San Canziano; Dougan, l’alpinista. E poi Krieger l’astronomo, Ressel agronomo e ingegnere navale, Jelinčič scrittore, con una luminosa storia di famiglia. Mentre altri nomi ancora del mosaico triestino può aggiungere chiunque abbia familiarità con la città e il gusto della piccola scoperta occasionale; nomi di personaggi (penso a Jožef Koller, agronomo sloveno cui si deve il rimboschimento del Carso, dove si snodano i sentieri della domenica della gente di Trieste) o di famiglie (i Cehovin di San Daniele del Carso, gli antenati di un sindaco tra i più noti). Insomma la “biodiversità”, per mutuare un termine alla moda, come motore di sviluppo, a confermare lo slogan, che semplifica ma può tornare utile, che Trieste fu grande finché fu plurale (vogliamo osare?, quando fu “europea”). E Spirito lo fa vedere con la leggerezza intelligente del suo stile garbato (sulla traccia segnata dalle Lezioni americane di Calvino, che domandava agli scrittori del Terzo millennio di «planare dall’alto, ché leggerezza non è superficialità»). Ma c’è, come si diceva, un secondo assioma, di indiscutibile plausibilità storica (anche se probabilmente veicolo di una formula ormai inadatta a favorire a Trieste un nuovo “Rinascimento” – diciamola veh!, la parola da qualche settimana sulla bocca di tutti). Il fatto cioè che moltissimi dei Grandi della giovane città fossero dei dilettanti; ovvero dei geni solitari, al di fuori di Accademie e Università (che Trieste non aveva), eppure inseriti nei circuiti vivi di una comunità che andava inventandosi nuove forme di socialità non classiste (ma tantomeno nemiche della gerarchia dei quattrini). Da qui un vivace associazionismo, la frequentazione di caffè e dei teatri, le feste del carnevale, il piacere della musica (da fare magari in famiglia, nello spirito del musizieren, di radice tedesco-borghese), la passeggiata a piedi o in carrozza a Sant’Andrea, «sulla strada fatta larghissima, capace di passarvi quattro carrozze in fila senza punto toccarsi una coll’altra; a parte poi d’un lungo e ben largo viale circondato di pini, e acacie, acciò la gente a piedi non sia dalle carrozze molestata», come scriveva Matteo di Bevilacqua nel 1820; un passeggio, come si usava dire, dove la buona società si metteva in mostra per discutere di affari, per programmare alleanze matrimoniali e perché no, scambiarsi frivolezze (mentre intanto, ma successe più tardi, alla vigilia del “secolo breve”, Emilio ed Angiolina di Senilità si sbaciucchiavano in qualche angolo di Sant’Andrea al riparo da sguardi indiscreti fra le complici penombre degli alberi). Liberi e “leggeri” dunque, questi “proto-triestini”, quanto ai ceppi della tradizione, e perciò capaci di “planare”. Vale per tutti il caso di Svevo, cui Spirito dedica un bel medaglione, il capitano d’industria, fattosi cristiano per amore ed interesse, che coltivava la letteratura come un vizio da nascondere, come una malattia infamante (perché non gli aveva dato né successo né soldi), o la vicenda di Saba (raccontata in pagine un po’ meno originali perché troppo appoggiate sulla mediocre biografia di Mattioni e sulle ultime sensazionalistiche trouvailles biografiche); di quel Saba che in Storia e cronistoria del Canzoniere, come sempre incisivo nel giudizio, così spiegava tale qualità: «quasi tutte le sue poesie sono nate dal bisogno di trovare, poetando, un sollievo alla sua pena, più tardi anche da una specie di gratitudine alla vita: è il cosiddetto “dilettantismo di Saba”». Estrosi ed avventurosi esploratori di nuove frontiere quei nostri antenati che la Storia ha premiato regalando loro una bella città fra i monti e il mare («Avevo una città bella tra i monti rocciosi/ e il mare luminoso» … sublime “banalità” della grande poesia), piuttosto che routinari e pignoli Bouvard e Pécuchet, con in capo i sillabari della tradizione e le mani macchiate di inchiostri burocratici (quest’ultimi i veri inventori del “no se pol”, la costante antropologica locale, come ben sa chi vive nella Trieste d’oggi). Resta da vedere se il “dilettantismo” saprà ancora salvare la cultura umanistica in una città dove le scienze umane, espressione un po’ in disuso ma efficace, sono ormai sfrattate dall’Università locale e indirizzate verso Udine, vuoi per effetto di quella proliferazione delle Accademie che premia chi abbia un maggior “bacino d’utenza”, vuoi per l’incapacità dei successori di Giuseppe Petronio, il maggior artefice dello sviluppo delle Facoltà umanistiche triestine, di tenere alta l’asticella della cultura e del prestigio. A tale dilettantismo, inteso come «bisogno di avventura, passione, bisogno di guardare oltre a dispetto di vincoli e cortigianerie intellettuali» attribuisce lo sviluppo scientifico triestino anche E. B., compagna dei vagabondaggi di Spirito (ora in presenza, ora solo con la voce al cellulare) nel dove, nel come, e nel quando di Trieste. Una sorta di co-narratrice, cui spetta una precisa funzione: raccordare con un’elastica intercapedine i cartigli monografici di cui si compone Gente di Trieste, che racconta diciotto personaggi di varia provenienza, se ho contato bene, e perfino due “eroi”, un direttore di giornale e Nazario Sauro, verso il quale Spirito, che non scrive su dettatura della Lega Nazionale (grazie!), è incline piuttosto in virtù del comune amore per il mare che per ragioni patriottiche. Legando così in un insieme compatto un racconto corale ma necessariamente frammentato e potenzialmente centrifugo. Proprio come la Promenade nei Quadri di un’esposizione di Mussorgsky (ma ciò che in genere ascoltiamo è la versione orchestrata da Ravel), per dire come chi si intende di musica. In questa E.B. – un po’ Beatrice, perché fa da guida all’autore, ne frena le intemperanze, ne accende la curiosità, un po’ bisbetica (in)domata, per quanto è incline al bisticcio – io avevo creduto di ravvisare un “amico” dei miei anni infantili, quell’Eta Beta, ghiotto di naftalina e inseparabile dal fedele cane-gatto-ecc. Flip, le cui avventure seguivo con gioia sugli “Albi di Topolino”. Un’ipotesi che l’autore ha accolto con una di quelle sue risate schiette e comunicative. Quindi probabilmente no.

 

Pietro Spirito

Gente di Trieste

Laterza, Roma-Bari 2021

  1. 259, euro 18,00