Trilogia di Tove Ditlevsen

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La drammatica testimonianza autobiografica della vita impossibile di una scrittrice geniale

di Francesca Schillaci

 

«Ci sono molti più motivi di essere in lutto per la mia vita che per la mia morte». Queste sono state tra le ultime parole scritte in una lettera da Tove Ditlevsen (1917-1976), poetessa e scrittrice danese che percorse metà del Novecento pubblicando molte opere, tra poesia e prosa. è stata riscoperta negli Stati Uniti nel 2019, diventando un caso letterario che si è espanso fino in Italia, grazie alla casa editrice Fazi Editore che ha pubblicato per la prima volta i tre romanzi cardine della narrativa di Ditlevsen: Trilogia di Copenaghen – Infanzia, Gioventù, Dipendenza tradotti da Alessandro Storti. Sono in realtà i suoi romanzi più maturi, scritti tra il 1969 e il 1971, soprattutto per quanto riguarda Gift, tradotto in italiano Dipendenza, che racconta con tono distaccato e disincantato il dramma dei suoi quattro matrimoni, i due aborti voluti e la tossicodipendenza da farmaci che l’ha posseduta fino alla fine della sua vita. Viene continuamente definita la Ernaux danese, come se tra le scritture di queste due straordinarie artiste ci fosse un filo conduttore in grado di dare maggior rilievo alla scrittura alterata, spesso destabilizzante di Tove Ditlevsen.

Tove Ditlevsen non assomiglia a nessuno, se non a se stessa. Inoltre è molto difficile poter creare dei parallelismi non conoscendo affatto la lingua danese, ma potendoci soltanto affidare alla traduzione che ci viene offerta oggi, nel tentativo, forse più utile, di sentire questa autrice e cercare di indagare il dramma profondamente esistenziale che l’ha portata fin da bambina a cercare riparo nella parola scritta.

Nonostante venga difficilmente ricordato, Tove Ditlevsen nasce nella poesia, si incarna in essa e tramite essa viene presto riconosciuta nel mondo letterario danese. In anticipo sulla realtà della sua vita, presagisce la perdita di un figlio e lo trasmette attraverso una poesia dal titolo tradotto in inglese To my dead child, che nel 1937 viene pubblicata sulla rivista Vild Hvede dichiarando il suo esordio. Ben presto ottiene la fama tanto desiderata: è l’autrice più letta in Danimarca e lo sarà per tutti gli anni della sua vita, ottenendo anche il Danish literary prize nel 1956. Per diventare una scrittrice, non fa sconti alle relazioni che instaura, a partire dal primo marito, l’editore Viggo F. Møller che l’aiuta a pubblicare il suo primo romanzo. Per ottenere un contatto costante con le case editrici e le riviste letterarie più influenti, è disposta a subire un matrimonio “bianco”, con un divario di età di trent’anni (lui 52 e lei 22), amplificando il declino di una solitudine che l’ha accompagnata fin da bambina, nell’anaffettività così tanto temuta e dalla quale cerca per tutta la vita di emanciparsi, riconoscendo poi che «l’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne soli. All’infanzia non si sfugge, resta attaccata addosso come un odore» (Infanzia).

Cresciuta in una famiglia operaia nel quartiere proletario di Vesterbro, a Copenaghen, vive infelicemente con i genitori e il fratello Edvin: «Mentre salgo le scale del palazzo posteriore, mi sento assalire dalla paura di non riuscire mai ad affrancarmi da questo luogo in cui sono nata. Finché abito qui, sono condannata alla solitudine e all’anonimato» (Gioventù). La madre casalinga aspira ad una vita borghese e insulta il marito operaio che perde spesso il lavoro a causa della guerra mondiale. Il padre è un socialista che sognava di diventare giornalista e incita Tove a leggere il più possibile, ricordandole però che la stesura dei suoi versi può essere soltanto un utile passatempo. Ogni tentativo di ricerca affettiva di Tove corrisponde, da parte della madre, un rifiuto violento, un disgusto nel tenere per mano la sua bambina, un insulto costante nel dirle che è nata senza il dono della bellezza. A periodi altalenanti, la madre costringe i due figli al “trattamento del silenzio”, un brutale e sadico mutismo che protraeva anche per una settimana, senza mai rispondere o rivolgere loro la parola. L’ha confessato Ditlevsen in un’intervista nel 1973, sottolineando «quanto fosse infernale vivere così in una casa che aveva solo due stanze da condividere e nessun luogo dove scappare». Il davanzale della finestra, in una delle due camere, è il luogo che consola Tove e dal quale nasce una forza di sopravvivenza che la obbliga a incanalare tutta “l’energia della sua disperazione» nell’unico talento che le è stato dato di sapere: « è sera, e io sono seduta come al solito sul gelido davanzale interno della camera, a guardare giù, in cortile. È la più lieta delle mie ore. La prima ondata di angoscia si è acquietata. Alzo lo sguardo verso la mia stella della sera, che è come l’occhio benevolo di Dio, che vigila su di me e mi è più vicino che di giorno. Prima o poi metterò per iscritto tutte queste parole che mi passano attraverso. Prima o poi altre persone le leggeranno in un libro e si meraviglieranno nel vedere che una femmina può – altroché! – fare la scrittrice» (Infanzia). L’età infantile è uno dei temi più ricorrenti nella scrittura di Tove Ditlevsen, insieme all’amore, alla solitudine e all’angoscia; tutti elementi che contribuiscono a farla cadere già in giovane età nei primi squilibri psichici e che alla fine, nel 1976, dopo anni di dolore affrontato e allo stesso tempo ricercato, finisce per suicidarsi con una overdose di sonniferi.

Nel secondo matrimonio con uno studente impegnato nella rivoluzione politica ha una figlia, Helle: deve mantenere entrambi con il suo lavoro di scrittrice. In un colpo solo, senza nessun tentativo di autoproclamazione, Tove Ditlevsen si riconosce nella sua grandezza. Ce lo dice nelle pagine di Dipendenza, narrando cronologicamente la sua storia di donna degli anni ’40, che in pieno conflitto mondiale ha ottenuto la fama, la famiglia, l’amore e anche la capacità di sostenere tutte queste cose insieme. Decide anche di abortire un nuovo figlio, terrorizzata di ricevere altri tradimenti da parte del marito che non tollerava la sua “frigidità” durante l’allattamento, e di essere nuovamente abbandonata in una convivenza famigliare. Sfida le leggi dell’epoca e si sbarazza del feto che sentiva «crescere come un tumore». Ma resterà di nuovo incinta: un medico che diventa il suo terzo marito e la lancia nel baratro della tossicodipendenza. All’ennesimo raschiamento, devastata emotivamente dal suo gesto, seppur mai pentita, riceve la sua prima iniezione di petidina, un analgesico oppioide utilizzato come la morfina, per sopportare il dolore fisico o, molto più probabilmente, l’angoscia che l’annienta: in quel momento, mentre nel suo corpo si diffonde l’estasi della beatitudine, la sensazione di essere scaldata dentro un enorme batuffolo di ovatta, decide che non può rinunciare ad un uomo che riesce a donarle quel tipo di liberazione. Maniaco ossessivo con precedenti psichiatrici, il marito e medico Karl Ryberg la tiene in ostaggio per cinque anni, proponendole iniezioni ogni volta che Tove vuole uscire per andare al circolo dei lettori, condannandola così ad una vita da tossicodipendente. Insieme hanno un altro figlio e ripetuti amplessi violenti da parte di Ryberg che durante l’atto le sussurra: «Mi piacciono le donne passive» (Dipendenza).

Tove per ottenere le iniezioni, inizia a fingere un dolore all’orecchio che si rivela l’espediente per riaccendere la schizofrenia del marito, il quale ossessivamente si concentra sullo studio otorino, fino a farla operare senza alcuna patologia in corso, rendendola sorda da un orecchio, a vita. Il declino delle condizioni fisiche di Tove incalza velocemente, fino al punto di non riuscire più ad alzarsi dal letto per le troppe iniezioni che lui le pratica anche di notte, a causa delle sue crisi di astinenza sempre più frequenti. Non si occupa più dei suoi bambini, né riesce a scrivere. Nei rari momenti di lucidità che ha tra un’iniezione e l’altra, guarda la sua macchina per scrivere e afferma: «ricordo l’epoca lontana in cui, quando incominciava l’effetto della petidina, la mia testa era costantemente attraversata da frasi e strofe poetiche; ora non accade più» (Dipendenza). Riesce a salvarsi da sola, una notte, nell’unico momento di lucidità che le fa realizzare il suo peso corporeo (30kg) e la consapevolezza di essere a un passo dalla morte. Chiama un medico. Il marito viene denunciato, ma poi internato con diagnosi psichiatrica. Nonostante il ricovero in clinica per la disintossicazione e le pene laceranti durante le crisi di astinenza, Tove ci ricadrà per sempre, alternando ai farmaci l’alcol. Il quarto e ultimo marito, il redattore Victor Andreasen, diventa l’amore della vita che l’aiuta a convivere con la brama di possedere la droga e la incita nuovamente a scrivere dopo anni di forzato abbandono.

È nei ricoveri ospedalieri, duranti i crolli psichici, che Tove Ditlevsen scrive le sue opere migliori. Spesso ammetteva di creare appositamente le condizioni per il ricovero «perché almeno là nessuno mi disturba e posso scrivere in pace». La diagnosi più rapida, oltre alla tossicodipendenza, è la depressione, fino a convincerla che è pazza. E lei ci crede. Per tutta la vita ha desiderato ottenere due dimensioni opposte come una vita ordinaria piena di amore e il bisogno innato di rompere gli schemi e urlare la sua voce. Ricercò il dolore e allo stesso tempo lo combatté. Venne definita la paladina della liberazione femminile in Danimarca, una portavoce in cui le donne si riconoscevano senza che lei si fosse mai dichiarata femminista. Al contrario, politica e lotte di genere non le interessavano; lei cercava di snodare l’insuperabile frattura della sua infanzia che l’aveva resa dipendente da qualunque forma di amore incontrasse; ha lottato per andarsene dal quartiere proletario che l’aveva vista nascere e nel quale si era radicata l’inevitabile certezza di essere sola; ha saputo anticipare quella che oggi viene chiamata l’autofiction, creando personaggi nei suoi romanzi che si riflettevano nelle frustrazioni di una intera generazione di lettori. Ma più di ogni altra cosa, ha cercato di non soccombere al perbenismo del suo tempo, infrangendo le regole di ogni donna che dovesse essere moglie, madre e casalinga. E l’ha fatto con la sua scrittura per la quale si è immolata fino all’ultimo dei suoi giorni «perché costituisce la mia unica speranza in un mondo sempre più incerto» (Dipendenza).

 

 

Ad oggi, gli unici scritti a cui abbiamo accesso sono le traduzioni di Alessandro Storti per Fazi Editore e un documentario in inglese che ho utilizzato per poter accedere a ulteriori fonti e informazione su Tove Ditlevsen e crearne un quadro quanto più esaustivo e obiettivo per i lettori. Tutti i documenti, le biografie, gli studi sulle sue opere sono in lingua danese. Le poesie, ad oggi, non sono ancora state tradotte in italiano, tranne alcuni stralci apparsi su delle riviste culturali online, in cui non viene citato il nome del traduttore, né il titolo della raccolta da cui è tratta la poesia. Pigesind è la sua prima raccolta di versi pubblicata nel 1939 dalla casa editrice danese Gyldendal e Barndommens gade, traducibile come Le vie dell’infanzia, è la raccolta di poesie pubblicata nel 1943 che viene musicata dalla cantautrice Anne Linnet, ed è considerata, insieme a Pingesind, l’opera in versi più intensa dell’autrice, capace di dare voce e immagine al suo quartiere proletario, malfamato e puzzolente, riscattando in questo modo parte della sua gente e della sua memoria di bambina.

 

Tove Ditlevsen