Ugo Nespolo tra rabbia e dolore

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Nespolo disegna una sorta di diario artistico (ed esistenziale tanto l’arte è connaturata al suo essere), che è al contempo una sua personalissima verifica di quanto è venuto descrivendo e annotando

di Alberto Brambilla

 

 

Ci si può smarrire nella selva oscura di un libro? A me è capitato di recente leggendo e rileggendo Per non morire d’arte. Ne è autore il genialmente versatile Ugo Nespolo, in primis artista a tutto tondo, ma anche molto altro; e soprattutto uno dei pochi intellettuali ancora desideroso – alle soglie degli ottant’anni! – di mettersi ‘in gioco’, come del resto molte sue opere ci hanno da sempre invitato a fare. Proseguendo nella metafora iniziale, confesso che addentrandomi, nel suo pamphlet, i capitoli sono presto diventati gruppi di alberi, le pagine irti rami, le parole folto fogliame. Perduto nel labirinto vegetale, ho cercato invano una via d’uscita. Mi ero smarrito. Poi verso la fine del liber-silva, a pag. 129 mi sono imbattuto in questo passo-sentiero: «Forse è l’ora di trovare un epilogo a questo viaggio per stazioni apparentemente non connesse, viaggio intrapreso per non morire d’arte ma paradossalmente proprio per amore dell’arte». Direi che è probabilmente questa la via d’uscita per poter affrontare (e definire) un testo così complesso, forse persino troppo; stipato com’è di dati, notizie, citazioni e riflessioni, in cui si richiamano ed intersecano, arricchendosi a vicenda, discipline diverse: l’arte, come è ovvio, ma anche filosofia, storia, sociologia, letteratura, cinema e quant’altro.

Si ha come l’impressione che questo cahier de doléances sia stato meditato per anni e poi spinto alla luce da una forza inattesa quanto irresistibile; e perciò messo sulla pagina nel giro di pochi mesi, quasi brogliaccio per un discorso che si sarebbe voluto più disteso, ma sulla cui perfetta composizione incombe lo scorrere del tempo sempre più vorace: Tempus edax rerum (tutto divora il tempo), scriveva Ovidio nelle Metamorfosi). Una corsa nel tempo contro il tempo, dunque, che è storico e insieme personale. Difficile è appunto trovare il bandolo di tale matassa, perché le suggestioni che le pagine trascinano come un torrente in piena sono infinite, così come le oscurità e i probabili abbagli e i perfidi miraggi che a volte ti fanno perdere la via maestra. Certamente il pamphlet è un atto d’accusa ben documentato, e insieme gesto d’amore estremo e disperato, come può comprendere solo chi sta vedendo morire la propria madre (il paragone non è poi così peregrino come appare). Tornando alla citazione iniziale, sembra che l’autore stesso si sia reso conto di tale difficoltà, accennando non a caso ai disturbi di ‘connessione’, termine volutamente, fecondamente  ambiguo (nel senso odierno della rete e oltre); così come credo vada inteso per via metaforica il termine “stazioni”, che rinvia al viaggio ma anche ad una Via Crucis tutta interiore e personale, e insieme – almeno nelle intenzioni – simbolicamente collettiva; e, anzi, quasi rito dimostrativo, e al tempo stesso gesto apotropaico per scongiurare il declino d’una intera plurimillenaria civiltà. Certo è che, secondo Nespolo, la metafora del viaggio (e dunque delle “stazioni” che via via si susseguono) pare la più facile ed economica per attraversare la selva intricatissima dell’arte contemporanea.

In questo senso odeporico penso si debba più correttamente parlare, non di uno ma di molti viaggi che si incrociano nel libro dando al lettore quasi un senso di vertigine per l’impossibilità di osservare ogni particolare, di seguire ogni sentiero tracciato dalla mano sicura dell’autore. Se lo sfondo è addirittura l’essenza della civiltà occidentale in rapido mutamento dopo le tragedie della guerra, il primo percorso in rilievo è, ça va sans dire, quello della storia dell’arte novecentesca e poi contemporanea. Il cammino a cui ci invita Nespolo si distende nel tempo e nello spazio. E forse non è senza significato che incominci nella città moritura per eccellenza, ossia Venezia. Dove il 20 maggio 1964 si trasportano dall’aeroporto ai padiglioni della Biennale le casse contenenti i quadri degli artisti americani (come Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Frank Stella, Jim Dine e altri) emergenti, campioni di quello che sarà denominato l’espressionismo astratto, con la fortunata variante della Pop art: è quello – secondo Nespolo – l’inizio di una nuova, più perfida, invasione del vecchio continente Si trattava, beninteso, di un’azione assai efficace e in un certo senso liberatoria per larga parte dei artisti del vecchio e stanco continente; e se non altro aveva inizialmente la funzione di rompere schemi consolidati nell’Europa ubriacata dalla sirena comunista e una visione ancora troppo legata ai dettami sovietici. Per la prima volta la quotidianità – coi suoi oggetti reali, senza gerarchie di sorta – entrava veramente, senza mediazioni d’alcun genere, nell’espressione artistica, fornendo uno scrigno di occasioni che allora appariva inesauribile. Da qui la risposta anche entusiasta degli artisti di casa nostra (Nespolo compreso), e la ripresa di parecchi temi, sia pure con molti distinguo (qui penso alla coraggiosa quanto terribile pattuglia d’assalto del gruppo romano di Piazza del Popolo).

A fronte di questo provvidenziale shock, non mancavano però perniciosi effetti collaterali che incistandosi sarebbero alla lunga diventati cancerogeni. In particolare si aprirà da lì in poi un capitolo decisivo della Guerra fredda, questa volta applicata al campo dell’arte (così come, analogamente, a quello dello sport). Le due superpotenze contrapposte useranno il territorio europeo come luogo di scontro non solo ideologico ma culturale; e all’arte del realismo socialista si opporrà la produzione a stelle e strisce, che farà dell’arte astratta la sua bandiera. In effetti d’ora in poi nulla sarebbe più stato come prima, a cominciare dalla inesorabile perdita del centro da parte di Parigi (e dell’Europa), presto sorpassata come città-guida da New York. Ci si accorgeva che dietro il sipario della presunta libertà andava in scena, paradossalmente, una sorta di neocolonizzazione e di imposizione forzata – per altro sostenuta con molti fondi dallo Stato federale – di un’arte che da statunitense diventerà globale, Artworld, e autoritaria. Parte da qui quella che potremmo definire una breve ma intensissima storia dell’arte contemporanea tracciata con mano sicura da Nespolo.

Lo spessore estetico e filosofico delle sue pagine, con continui rimandi spesso eruditi e mai provinciali, impedisce di renderne qui conto in maniera sistematica come meriterebbe. E tuttavia si può cercare di fissare, con l’aiuto dell’autore, alcuni punti fermi intorno a cui ruota la dimostrazione. Dopo quel terremoto made of USA, come aveva profetizzato Marcel Duchamp siamo ormai, volenti o nolenti, da decenni pienamente entrati in un mondo culturale (ed artistico in ispecie) completamente diverso, altro. Un pianeta vuoto e privo di senso, dove manca qualsiasi ancoraggio estetico a cui potersi affidare nel mare in burrasca. Abolito per  stupidità e convenienza ogni criterio di giudizio, ne consegue che tutti sono divenuti artisti ed ogni opera può legittimamente ambire ad uno statuto d’arte. Il fare artistico è dunque diventato mero prodotto commerciale, una qualsiasi merce; e in quanto tale il suo valore è solo determinato dal mercato, anch’esso per altro drogato e dominato da operatori senza scrupoli (anche qui Nespolo non fa sconti e tira in ballo galleristi, critici, direttori di musei e persino collezionisti); persone  spesso prive di cultura e memoria storica, solo mosse da una logica prettamente imprenditoriale. A ben vedere, dunque, non si può neanche più parlare di arte come fare, come tecnica e mestiere perché è cambiata la sua essenza; il concetto si è distaccato dalla realtà e dalla sua rappresentazione. In tale voluta confusione ciascuno spinge per farsi spazio, per gridare non importa cosa; e la maggioranza silenziosa (e diseducata) applaude, felice di salire sulla giostra. Questa, in estrema sintesi, la coraggiosa presa di posizione di Nespolo.

Se questo è il viaggio più doloroso o, se vogliamo, la pars destruens della sua trattazione, corre in parallelo, sul crinale, un percorso meno visibile, più di carattere narrativo. Qui Nespolo disegna una sorta di diario artistico (ed esistenziale tanto l’arte è connaturata al suo essere), che è al contempo una sua personalissima verifica di quanto è venuto descrivendo e annotando nei diversi capitoli del suo cahier-journal. Sono pagine di grande carica  suggestiva, anche sul piano stilistico (memorabili alcuni attacchi come quello del capitolo quinto), che sembrano preannunciare un’auspicabile vera e propria autobiografia (che si prospetta fin d’ora imperdibile). Ciò che conta in questo diverso e parallelo viaggio è lo spirito di ribellione, fra anarchismo e dada, che Nespolo vuole trasmettere. È soprattutto la voglia di rimettere al centro l’esperienza artistica e una seria quanto indispensabile riflessione sulla sua insopprimibile essenza. Io ci sono, ci dice Nespolo, affilando le armi: tocca a noi accettare la sfida.

 

Ugo Nespolo

Per non morire d’arte

Einaudi, Torino 2021

  1. 132, euro 12,00