UN ANTEFATTO: IL PONTEROSSO DEL 1947

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Facile metafora, il ponte. Adoperata spesso nelle sue esortazioni anche da papa Francesco: “fare ponti in questa società dove c’è l’abitudine di far muri” citando un suo discorso di qualche settimana fa, il 13 giugno. Metafora usata anche da una delle più prestigiose riviste di politica e cultura italiane, Il Ponte, fondata nel 1945 da Pietro Calamandrei. Metafora che è venuta in mente anche a noi, nel dar vita a Il Ponte rosso, aggiungendo con l’aggettivo un preciso riferimento topografico che non può sfuggire a nessun triestino. Ma non siamo certo i primi: ce lo ricorda la ristampa anastatica di un “opuscolo d’arte e cultura” ora pubblicato a cura di Nicoletta Zanni per l’«Archivio degli scrittori e della cultura regionale», operante presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Trieste.

L’opuscolo ora riproposto per merito della EUT, è stato curato da un minuscolo gruppo di intellettuali, due italiani e due sloveni, che si ritrovavano all’osteria nei martedì di quel non facile 1947, con la prospettiva politica, poi mai attuata, di istituzione del Territorio Libero di Trieste e con tanti fermenti e suggestioni imposte dalla singolare contingenza politica e amministrativa determinatasi in seguito a un immediato dopoguerra qui più spigoloso che altrove in Italia. I quattro erano Giuseppe Menassé, pubblicista, critico d’arte e letterario (scrisse tra l’altro per Solaria e per Il Corriere di Trieste) di origine ebraica, che emigrò nel Nuovo Mondo alla fine degli anni Cinquanta per stabilirsi in Canada, e poi Maria Lupieri, anch’essa critica d’arte e scrittrice, oltre che pittrice già affermata, e gli sloveni Lojze Spacal, pittore e grafico, che assieme alla Lupieri parteciperà alla Biennale di Venezia nel 1948 e infine Robert Hlavaty, illustratore e acquarellista di origini ungheresi. Ai quattro si unì la scultrice Fiore de Henriquez, sorella del noto collezionista Diego, che ha dato origine al recentemente istituito Museo di guerra per la pace, che in seguito emigrò in Gran Bretagna, dove continuò una carriera artistica di grande successo.

Il gruppo era connotato da una decisa professione antifascista: Menassé aveva pagato con la morte del fratello Vittorio ad Auschwitz la sua ascendenza ebraica, la Lupieri aveva attivamente partecipato alla Resistenza in Lombardia, Spacal subì reiteratamente il confino e lo stesso Hlavaty dovette rifugiarsi a lungo oltre il confine con la Jugoslavia.

Forti di tale bagaglio politico e culturale, diedero vita a questo opuscolo che fin dall’intitolazione rifuggiva dalle suggestioni nazionaliste che godevano facilmente, in quel periodo , di opposte simpatie nell’opinione pubblica locale, per avviare e sorreggere una visione di una cultura plurale e aperta, fin dalla scelta del nome da dare all’iniziativa. Così si esprime Menassé nella pagina di apertura del fascicoletto: “… veramente soltanto e sempre a San Giusto, basilica e castello veneziano, hanno da rappresentare Trieste, tutta questa nostra Trieste, così strana e difficile? […] E perché una volta tanto non onorare il Canale con le sue belle barche, il mercato con le prosperose nostre venderigole […] Trieste è una città di traffici posta in un quadrivio d’Europa […] : qui convergono civiltà e le civiltà non sono mai privilegio d’una nazione o predominio di una nazione sull’altra, ma lavoro comune di tutti gli uomini e quindi di tutti i popoli, che contro ogni costrizione continuano a cercarsi, a esprimere voci e a intonarle, ad accogliere ideali e a fonderli”.

Il proposito espresso con quelle parole era destinato a vita breve, perché fin dall’anno successivo alla pubblicazione, il 20 marzo 1948, la “nota tripartita” delle potenze occidentali propone il ritorno all’Italia del Territorio libero, generando entusiasmi e frustrazione in una popolazione duramente divisa al suo interno, mentre pochi mesi più tardi la rottura tra Stalin e Tito apriva un nuovo, lacerante capitolo di una storia accidentata. Tali mutate circostanze politiche segnarono la fine di un’iniziativa culturale che pure, anche solo scorrendo il sommario di quel fascicolo, prometteva di essere un interessante laboratorio d’idee. In circostanze congiunturali ormai del tutto diverse, in un’Europa unificata, sia pure precariamente, esiste forse ancora qualcosa da imparare da quel generoso tentativo.

Per gettare ponti e abbattere muri.