SPECIALE SG Un autoritratto dimenticato di Saba

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«La stella d’Italia, un soldato di fanteria e uno di cavalleria»

di Fulvio Senardi

 

Dopo un’ultima crisi di depressione, che gli suggerisce, non sarà l’ultima volta, cupe idee di suicidio («Io della morte / non desiderio provai, ma vergogna / di non averla ancora unica eletta, / […]» – In riva al mare), Saba si trasferisce, gennaio 1945, a Roma. È un uomo segnato dalla lunga clandestinità vissuta da ebreo braccato, a Firenze nell’ultimo anno, città dove era ancora dolorosamente fresco il ricordo delle retate del novembre 1943, spietatamente condotte dall’ufficiale tedesco Albin Eisenkolb.

Grande il tormento e grande il desiderio di felicità: «Roma è un brillante che manda luce da tutte le parti», dichiara a Lina, nel febbraio del 1945; e, «non avessi l’incubo dei soldi e la preoccupazione di voi, passerei lunghe ore seduto sui gradini di una fontana. Credo che piangerei di ammirazione». A Linuccia invece nel dicembre 1945: «a Roma non occorre, per star bene, essere felici, Roma è una felicità in se stessa».

A novembre di quell’anno è salito a Milano, nella speranza di trovare nuove possibilità di collaborazione, e quindi di guadagno, anche grazie all’amicizia di Raffaele Mattioli. Un trasloco che lo avvicina a Lina, ritornata a Trieste. In effetti potrà collaborare con Il Corriere della Sera e con la sua emanazione pomeridiana, Il Corriere d’Informazione. Restano vive però le relazioni che – nella breve stagione romana, il periodo delle Scorciatoie – aveva intessuto con le riviste della capitale, in particolare con la Nuova Europa, di simpatie “azioniste” e con la più tradizionalista Fiera Letteraria, che ha un occhio di riguardo per le sorti di Trieste e per i suoi scrittori. Ad essa lo avvicinava una lunga consuetudine di collaborazione, avendovi scritto in maniera regolare tra il 1926 e il 1935 (il Canto a tre voci, ovvero la Sesta fuga, era stato pubblicato addirittura in Prima Pagina nel 1928). La rivista riprende a uscire nell’aprile 1946 (anno di grazia per Saba: riceve il premio Viareggio, con soddisfazione però venata d’amaro per l’ex-aequo con Silvio Micheli), guidata da quel Giovanni Battista Angioletti (affiancato da un comitato di redazione: Corrado Alvaro Emilio Cecchi, Gianfranco Contini, Gabriele Pepe, Giuseppe Ungaretti) che l’aveva diretta negli anni Venti, subito dopo il passaggio della sede da Milano a Roma. Nel corsivo d’apertura del numero 1, Dal fanatismo alla libertà, Angioletti, richiamandosi a Foscolo e a Goethe, invitava gli scrittori a riprendere la penna, a riallacciare il rapporto con il pubblico. Quel rapporto che si era andato incrinando, non sfugga l’intonazione apologetica, quando «gli scrittori si trovarono disarmati di fronte ai fanatici» e l’arte, che tendeva all’«assoluto», non trovò più modo di colloquiare con la gente, incapace di intendere, assordata dalla demagoia, «i reconditi incanti della poesia nuova».

La fortuna di un giornale come questo – scrive Angioletti – è strettamente legata alla vitalità delle lettere e delle arti di oggi in Italia; legata al convincimento che fra tante distruzioni la fantasia e l’intelligenza rimangono nel nostro Paese intatte, e rese anzi più intense dal lungo e sanguinoso passaggio attraverso il dolore. Non crediamo che l’Italia debba mostrarsi avara di questi superstiti beni, né crediamo alla fecondità delle lamentazioni, alla muta eloquenza degli occhi impietriti, e tantomeno partecipiamo alla singolare voluttà dei contemplatori di morte. Invitiamo perciò gli scrittori e gli artisti italiani a riprendere il loro posto senza esitazioni e senza superflue crisi di coscienza. […] Il ritorno degli artisti e degli scrittori al loro posto può, d’altra parte, avere oggi anche un profondo significato sociale e politico. Ci sembra che al nostro Paese possa giovare qualsiasi esempio di lavoro convinto e appassionato. […] Se le loro opere potranno anche in minima parte contribuire a “illuminare lo spirito”, a “purificare il gusto”, a dare “maggiore nobiltà alle aspirazioni e alle idee” degli italiani, è certo che artisti e scrittori avranno partecipato alla vita del Paese nella maniera più utile e più durevole.

Quanto poi contasse il poeta triestino nel progetto della rivista, lo indica subito, nel riquadro in frontespizio del fascicolo inaugurale, l’elenco dei futuri collaboratori: apre la schiera dei poeti e degli scrittori appunto Umberto Saba (seguito da Alfonso Gatto, Mario Luzi, Sandro Penna, Adriano Grande; a seguire gli interpreti di altre tipologie di scrittura, i narratori, quindi i critici). Così, già il numero 3 presenta al pubblico la poesia Raccontino (sulla medesima pagina su cui compare – una involontaria beffa del proto –un saggetto di Alfredo Gargiulo, il simbolo della critica sorda alla sua poesia, come spiegherà Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere); nel numero 13 del luglio 1946 toccherà alle Variazioni sulla rosa; mentre nel settembre dello stesso anno, sul numero 22, verrà pubblicata la risposta di Saba – che si era lamentato con gli intimi di non essere stato compreso fra gli scrittori interpellati (Moravia e Piovene) nel fascicolo dedicato alla Psicoanalisi oggi (numero 16, luglio 1946) – all’articolo di Croce: Psicanalisi e poesia (numero 18, agosto 1946). E si tratta di quel breve saggio Poesia e psicanalisi che gli conquista il plauso di Joachim Flescher, ebreo polacco profugo in Italia, fondatore della rivista Psicoanalisi e, per un breve scambio di lettere, corrispondente del poeta triestino (su tutto questo vedi Umberto Saba, Carteggio con Joachim Flescher, 1946-1949, a cura di A. Stara, edizioni SE, Milano, 1991).

Saba ha finalmente l’impressione di godere della fama che merita e che, senza rivali, gli venga riconosciuto quel ruolo di massimo poeta italiano di Trieste cui da sempre aspira: «avevo una città bella tra i monti /[…] / […] più che d’altri mia / che la scoprivo fanciullo, ed adulto / per sempre a Italia la sposai col canto». Gli offre la palma, con parole esplicite, sul numero 9 della rivista, nel giugno 1946, il fiumano Paolo Santarcangeli nel breve contributo (ma in prima pagina!) Gli scrittori della Venezia Giulia. Un saggio che non è forse ozioso citare con ampiezza, perché esprime pareri interessanti anche a proposito della vexata quaestio della “triestinità” letteraria.

Dunque, così Santarcangeli, se sul terreno culturale è stato prevalente in Italia l’influsso francese, «Trieste subiva invece i modi della cultura tedesca» di marca austriaca, e non solo in letteratura, perché, a rendere l’irradiazione più complessa, ha contribuito il «sistema di sentire e di operare, […] il modus speculativo tedesco, lo stato d’animo dell’uomo centro-europeo, il caratteristico tormento di ricerca che trascura fino ad un certo limite, in contrasto con i latini, la cura della forma». Per altro la presenza nella città mercantile di Greci e di nuclei di altri stranieri ha determinato l’«apertura verso formulazioni mentali e religiose lontane», buddismo, teosofia, psicanalisi. Si aggiunga poi lo «spirito pratico» che a Trieste non manca: «crediamo che sia dovuto a questo influsso», così ancora Santarcangeli, «se gli scrittori giuliani sono molto chiari e piani e semplici nell’espressione». Da qui deriverebbe la peculiarità di Saba, «il più direttamente comprensibile fra i nostri poeti», e la «trasparente, limata e modesta prosa» degli scrittori giuliani, da Svevo a Stuparich, con «scarnificazioni e povertà quasi ostentate» in Morovich. Ma, secondo Santarcangeli, va tenuto presente anche un terzo fattore: la faticosa conquista per chi coltivi a Trieste ambizioni letterarie, della lingua italiana, reagendo a un dialetto venato di barbarismi: «i letterati della Venezia Giulia, per effetto di quanto è accaduto dal ‘900 in poi, debbono sempre tornare ad affermare e rendere cosciente ed operativa, la loro appartenenza allo stile, alla vita, allo coltura dell’Italia». «I tre fattori ricordati così succintamente fanno poi sorgere inevitabilmente nell’animo di questi scrittori un formidabile complesso di inferiorità». E, conclude: “tali moti dell’animo saranno dunque la causa non ultima di quella delicatezza, di quella tenerezza, di quella sentimentalità – di buona lega, perché depurata nel crogiolo dell’autocritica e dell’arte maturata – che affratellano il piccolo Berto e il piccolo Giani, intenti ambedue ‘à la recherche du temps perdu’, le prose di Quarantotti-Gambini e le lievissime poesie di Virgilio Giotti. Le ‘papuzete rosse’ e il ciuchino sul molo amorevolmente evocati da questo poeta, hanno stampato le loro orme sulla letteratura nostra; ma se dovessimo scegliere un simbolo completo dell’arte poetica giuliana, propenderemmo per quella stupenda poesia di Saba in cui, dalla porta d’un nero magazzino di carbone s’intravede, come una promessa, come una speranza di paradisi futuri, il baluginare del mare lontano”.

Un riconoscimento, come si vede (ed è ciò che ci ha suggerito di citare largamente), non esente da un’ombra che poteva inquietare il permalosissimo nevrotico: quel mettergli accanto Giotti, come un poeta che evoca immagini capaci di «stampa[re] le loro orme sulla letteratura nostra». Un accenno che sembra involontariamente anticipare, come un cattivo presagio, il numero 15 del luglio 1946 della Fiera letteraria, interamente dedicato a Trieste (in un momento storico in cui veniva contestata l’appartenenza all’Italia della città) dove, se è presente un contributo saggistico su Saba di Emilio Cecchi, l’unica poesia riportata in tutto il fascicolo è El bon sono di Virgilio Giotti, quasi che fosse egli la voce autorizzata, in poesia, a esprimere al meglio l’anima di Trieste. Che sia da vedere qui, ben prima dell’antologia Poesia dialettale del Novecento (1952) curata da Pasolini e Dell’Arco, con la sua tendenziosa (e sbagliata) sottovalutazione di Saba come crepuscolare in ritardo (mentre l’autentico “novecentesco” sarebbe Giotti), una delle radici della misteriosa inimicizia che ha segnato l’ultima fase della vita dei due poeti, un tempo così affiatati e concordi?

Ma non è qui il nostro tema. Ci premeva, circostanziando contesto e ragioni, antefatto e contorni, preparare la presentazione di una pagina di Saba del tutto dimenticata. Un testo più che minore, minimo; eppure, credo, non privo di interesse. Come nel caso di altri scrittori, Piovene, Jovine, Moravia, per fare qualche nome, anche Saba risponde positivamente alla richiesta della redazione della Fiera letteraria di scrivere un breve autoritratto, con una valutazione della propria ispirazione ed una succinta bibliografia delle opere. Lo si legge qui di seguito (Fiera letteraria, n. 18, agosto 1946, p. 2):

 

Cara Fiera,

nel libro che sto scrivendo (STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE) rispondo alle domande (un poco indiscrete) che mi pone la tua circolare. Abbreviare duecento pagine in 10-20 righe, ridurre cioè uno studio particolareggiato ad una SCORCIATOIA, non mi sarebbe – oggi come oggi – possibile. Queste cose domandano l’«ispirazione» ed anche un’ispirazione di carattere «allegro»; tutto quello insomma che, come la felicità, tanto meno viene quanto più uno ne va in cerca. Dò anche, in quel libro, il giudizio che mi sono formato sull’opera mia; cerco di comprendere e far comprendere al lettore di domani le ragioni (che naturalmente non sono «estetiche» ma «psicologiche») delle numerose incomprensioni e «scemenze» che accompagnarono, con particolare cecità ed accanimento, la mia carriera d’artista. La mia biografia è, in se stessa, una povera cosa, e ne ho parlato (alcuni dicono perfino troppo) nelle mie poesie. Ripetermi sarebbe inutile.

Non ho mai disegnato in vita mia, se non da bambino a scuola. Da un mio vicino di banco (certo Nicolic) appresi a disegnare rapidamente, e con un solo tratto di matita, tre cose: la stella d’Italia, un soldato di fanteria ed uno di cavalleria. Questi ultimi li ho ripetuti tante volte, variando con essi all’infinito IL QUADRATO DI VILLAFRANCA, che la mia vecchia mano ne serba ancora la memoria… Se queste puerilità non ti sembrano indegno di te e del tempo nel quale viviamo, puoi anche riprodurle.

 

Bilbiografia: Poesia, 1911 – Coi miei occhi, 1912 – Cose leggere e vaganti, 1920 – Il Canzoniere, 1921 – Preludio e Canzonette, 1922 – Autobiografia, I Prigioni, 1924 – Figure e Canti, 1926 – Preludio e Fughe, 1928 – Tre Composizioni, 1933 – Ammonizione ed altre poesie, 1932 – Parole, 1934 – Ultime cose, Lugano, 1944 – Il Canzoniere, 1945 – Scorciatoie e Raccontini, Mondadori, 1945.

 

 

Poco da commentare. L’accenno alla felicità, come pure allo spirito allegro, sfuggenti come l’ispirazione, porta ovviamente il segno della consapevolezza di quanto questa condizione sia stata, per Saba, combattuta e rara. È un tema per eccellenza del Canzoniere: la rassegnata condanna a un destino cui la poesia può contrapporre soltanto lampi di disperata chiaroveggenza o brevi oasi di serenità nella gioia del fare, dell’incontro con gli altri, dell’amore; e mai senza priva dell’ombra dell’ossimoro. E comunque, con narcisistico spirito di crociata, Saba è pronto a scendere in armi contro le «scemenze» che, per ragioni «psicologiche» come è pronto a giurare da entusiastico adepto di Freud, hanno ostacolato la comprensione della sua arte. Questione di repressione e rimozione, dunque. Più interessante forse, perché meno scontato, il trafiletto sul disegno. Una tematica che non viene toccata da nessun altro degli scrittori interpellati e che Saba introduce nel discorso seguendo qualche misteriosa suggestione (difficile pensare che lo abbia chiesto la “circolare” della «Fiera», di cui, peraltro, non disponiamo). E cosa disegna Umberto bambino, ammaestrato dal compagno Nicolic? La stella d’Italia (il pensiero vola a Teatro degli Artigianelli) e il quadrato di Villafranca, ossia la vittoriosa difesa del principe ereditario (aveva stimolato anche l’estro di Fattori e la fantasia di De Amicis) compiuta dai fanti in formazione chiusa, nel corso di un episodio della disastrosa terza guerra di indipendenza. Una banale fantasia eroica, come quelle che furono inibite al piccolo Berto, divenuto il «bambin dalle calze celesti», e che si prenderebbe qui una rivincita, riemergendo dall’inconscio? O non piuttosto una simbologia di resistenza e di difesa del triestino, di ideali non nazionalistici (figurarsi!) ma patriottici, che teme di “perdere” la sua città: «Tito sui muri, s’iscriveva, in vista / sotto, della mia bianca cittadina»?