Da una lettera a un papa all’articolo 9

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Il pensiero di Raffaello sui beni culturali scritto da Baldassarre Castiglione in una lettera al pontefice all’epoca regnante

di Walter Chiereghin

 

L’editore Olschki pubblica, nel quinto centenario della scomparsa Raffaello Sanzio, la sua Lettera a Leone X, redatta assieme a Baldassare Castiglione, incompiuta e mai pervenuta al pontefice (si trattava, del resto, di una lettera dedicatoria, non di un’autentica missiva). Il volume di Francesco Paolo di Teodoro, ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Torino, nonché co-curatore della sfortunata mostra“Raffaello.1520-1483” allestita presso le Scuderie del Quirinale e visitabile fino al 30 agosto, con le limitazioni dettate dalle norme di tutela dei visitatori imposte dalla lotta al virus che ha determinato, tra l’altro, una prolungata chiusura dell’importante rassegna romana.

In questo libro – scientificamente rigoroso nell’esposizione dei contenuti, ma sfrondato di ogni appesantimento filologico – sono tre, dunque, i protagonisti della storia narrata, tutti personalità di primissimo piano nella società e nella cultura dei primi anni del Cinquecento: il “divin pittore” di Urbino, un pontefice umanista fiorentino, figlio di Lorenzo il Magnifico e un altro umanista, lo scrittore e diplomatico Baldassarre Castiglione, l’autore del Cortegiano, amico fraterno del grande artista. Ma c’è, come vedremo, un ulteriore protagonista implicito, e inopinatamente si tratta dell’articolo nove della nostra Carta costituzionale, di cui in qualche modo la Lettera a Leone X è l’antefatto più remoto, il fondamento del moderno concetto di tutela dei beni storici, artistici, culturali e paesaggistici.

La Lettera, che secondo Salvatore Settis possiamo ricordare «come una delle cose più straordinarie che Raffaello abbia fatto», fu pensata e scritta nell’anno che precedette la prematura scomparsa dell’artista, che sarebbe avvenuta tra la generale costernazione il 6 aprile 1520, nel suo periodo romano, all’apogeo quindi di una straordinaria fama ottenuta per i suoi meriti di pittore, ma anche per quelli di architetto che proprio a Roma s’erano concretati nella direzione dei lavori per la riedificazione della Basilica di San Pietro, la fabbrica più importante dell’intera cristianità, nella quale era succeduto a Donato Bramante, deceduto nel 1514. Oltre a questo impegnativo incarico, cui si sommavano numerose importanti altre committenze, in forza di un breve papale di Leone X del 27 agosto 1515, era stato nominato «praefectum marmorum et lapidum», ufficio che si è voluto forzatamente intendere come una sorta di sovrintendenza archeologica, cosa che in effetti non era, quanto piuttosto una competenza sui reperti architettonici dell’antica Urbe, con la licenza di approvvigionarsi di essi facendoli materiali per l’edificazione di San Pietro in Vaticano.

Benché oberato da una stupefacente quantità di impegni artistici ed organizzativi, su sollecitazione del papa Leone X, Raffaello aveva trovato modo di impegnarsi in un ambizioso progetto di ricognizione e documentazione in pianta e, per alcuni edifici di rilievo, in prospetto e alzato della città antica, opera di dimensioni abnormi, in cui furono impiegati numerosi aiuti, che rimarrà fatalmente incompiuta per il sopravvenire della morte del maestro, ma che dovette risultare gradita all’artista in quanto lo collocava in un ambito culturale, quello della classicità, che egli fin dagli anni giovanili di Urbino sentiva profondamente suo, al punto d’avere indicato nel Panteon il luogo destinato alla sua sepoltura.

Dell’opera di catalogazione intrapresa da Raffaello, purtroppo non rimane traccia se non proprio nella lettera dedicatoria della quale stiamo parlando, da intendersi come prefazione al complesso insieme di documenti – mai completato e comunque disperso – che intendeva censire e descrivere dettagliatamente gli edifici della Roma imperiale e le tracce di essi ancora esistenti all’epoca nella città sede papale.

Questi gli antefatti più prossimi della Lettera scritta “a quattro mani” col Castiglione e ripubblicata ora da Di Teodoro, con un ampio saggio introduttivo in cui tra l’altro leggiamo che la dedicatoria rimane nei fatti «l’unico documento scritto, superstite di un naufragio intellettuale che parla ora con voce commossa, ora con accenti duri e accusatori, ora con lingua asetticamente scientifica e quasi didattica, preoccupata solo della chiarezza» (p. 10).

Il documento, datato 1519, è rimasto infruttuosamente giacente per oltre due secoli, prima di essere reso noto e pubblicato nel 1733, come elaborato del Castiglione, di interesse quindi prevalentemente letterario e destinato a pochi eruditi, mentre bisognerà attendere la fine del XVIII secolo quando, precisamente nel 1799, l’abate Daniele Francesconi riuscì ad attribuire a Raffaello la paternità intellettuale dei contenuti della Lettera. Oltre all’interesse intrinseco per il pensiero formulato nella Lettera dal grande maestro, l’interesse per il documento, nel periodo della sua attribuzione a Raffaello, fu accentuato nella stagione in cui i beni artistici italiani stavano subendo le massicce depredazioni del patrimonio ad opera di Napoleone Bonaparte.

Il fatto poi che fosse stato un architetto, un “tecnico” quindi – anche se di così rilevante levatura come l’Urbinate – a riflettere e discettare su argomenti che oggi definiremmo “di tutela” dei beni archeologici e storico-artistici, rende questo documento il capostipite di una successiva bibliografia che per mille rivoli giunge fino ai nostri giorni. Si tratta della voce di un artista che interpella il papa, quindi il potere – all’epoca anche temporale oltre che spirituale e religioso – non soltanto offrendo la documentazione prevista dall’articolata analisi al pontefice, ma indicandogli le linee guida, diremmo oggi, che dovrebbero informare il suo governo della cosa pubblica. Cosa che vien fatta legittimando innanzitutto se stesso come studioso della materia trattata e quindi rivendicando a sé un diritto di esprimersi criticamente, derivante da una specifica competenza: «essendo io stato assai studioso di queste antiquitati e havendo posto non piccola cura de cercharle minutamente e misurarle con diligentia, e legendo li boni authori e conferendo l’opere con le scritture, penso haver conseguito qualche noticia de la architettura anticha. Il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognitione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi el cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato» (p. 43). Quindi, quasi all’incipit del documento, dopo aver richiamato la propria specifica competenza in materia, la conoscenza indicata come legittimazione del prendere la parola, denuncia lo stato di abbandono dei monumenti che si provava a censire e descrivere, il passo successivo è la denuncia di uno stato di abbandono delle “architetture antiche”, ridotte dai saccheggi e dall’incuria a qualcosa di simile a un cadavere.

L’immagine macabra ispirata a Raffaello dalla contemplazione di quanto avrebbe dovuto essere invece materia viva di cosa “tanto eccellente” non risulta un mero artificio retorico, ma probabilmente discende dall’alta considerazione in cui teneva l’antichità classica che proprio nella Roma, in cui erano confluite la storia antica e pagana assieme a quella cristiana e in cui si consumò l’ultimo febbrile e per molti versi entusiasmante periodo della sua esperienza umana, intellettuale e creativa, doveva trovare un riscontro agrodolce ai suoi interessi storici e artistici.

La precarietà delle condizioni in cui versava l’enorme patrimonio archeologico e monumentale romano all’epoca induce Raffaello ad individuarne tre concorrenti fattori, che nella lettera sono identificati nel tempo, nei barbari e nei papi. «Ma perché ci dolerem noi de’ Gotti, Vandali et altri tai perfidi inimici, se quelli li quali come padri e tuttori deveano deffendere queste povere reliquie di Roma, essi medemi hanno lungamente atteso a destruerle? Quanti pontifici, Padre Santissimo, quali haveano medemo officio che ha Vostra Santità, ma non già el medesimo sapere, né il medemo valore e grandezza d’animo, con quella clemenza che vi fa simile a Dio: quanti, dico, pontifici hanno atteso a ruinare templi antichi, statue, archi et altri aedifici gloriosi! Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana siansi scavati fondamenti onde, in poco tempo poi li edifici sono venuti a terra! Quanta calce si è fatta di statue et altri ornamenti antiqui! che ardirei dire che tutta questa Roma nova che hor si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di pallaggi, chiese et altri aedifici, tutta è fabricata di calce di marmi antichi» (p. 44).

Si tratta di un passaggio fondamentale, in cui si identificano i nemici per così dire “interni”, gli uomini che gestiscono il potere, che si rendono responsabili dello scempio indirettamente per incuria e mancata vigilanza, o addirittura per vandalismi promossi in prima persona, come purtroppo è continuato ad avvenire, anche, per esempio, poco più di cent’anni dopo, quando, irridendo ancora una volta un pontefice – Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini – fu scritta una delle più celebri pasquinate, che recita «Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini»; ma, purtroppo, si potrebbe continuare fino ai giorni nostri, e non soltanto per Roma. L’uso poi della parola “tutori”, riferita al compito di tutela dei beni culturali, spesso disatteso, dei reggitori della cosa pubblica, e al contempo istituisce significativamente un diretto collegamento anche testuale con l’articolo 9 della Costituzione «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Esaurita, con estrema sintesi, l’analisi della situazione che gli era contemporanea, Raffaello passa a un’inusuale esortazione al pontefice, quasi a dettare imperativamente quanto deve divenire un requisito non secondario dell’azione di governo: «Non debe adunque, Padre Santissimo, essere tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana, per testimonio del vallore e della virtù di quegli animi divini, che pur talhor con la memoria sua excitano alla virtute li spiriti che hoggi dì sono tra noi, non sii estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti; che pur troppo, si sono insino a qui fatte iniurie a quelle anime che col suo sangue parturiro tanta gloria al mondo» (p. 44). Questo passo della Lettera a Leone X contiene alcuni concetti che non solo ne segnano la modernità, quali il riconoscimento degli obblighi di tutela e di conservazione dei beni, ma collegano tali obblighi al presente e al futuro della società che viene definita non già come romana, ma “italiana”, il che, come ha recentemente osservato Tomaso Montanari, istituisce un collegamento ancora una volta con l’articolo della Costituzione che parla di “Nazione”, unico riferimento a questo termine rinvenibile tra gli articoli che ne dettano i principi fondamentali.

La lettura del saggio introduttivo di F.P. Di Teodoro, com’è logico, si addentra ulteriormente in profondità sui contenuti del documento, su cui lo studioso si è ripetutamente esercitato, fornendone un’accurata descrizione propedeutica alla lettura del testo, ma istituendo anche collegamenti con quanto sulla medesima materia era stato scritto in precedenza, disegnando quindi il profilo di una grande figura di appassionato intellettuale che, come si è cercato anche qui di evidenziare, riesce ad apparirci come nostro stimolante contemporaneo, a mezzo millennio della sua acerba scomparsa.

 

 

 

Copertina:

Francesco Paolo Di Teodoro

Lettera a Leone X

di Raffaello e

Baldassarre Castiglione

Leo S. Olshki Editore, Firenze, 2020

  1. XII-72 con 32 tavole f.t. a colori

euro 23,00