LUNATICO – Il cantastorie del Pupkin Kabarett

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Quattro chiacchiere con Schiraldi

dI Anna Calonico

 

Da una quindicina d’anni Stefano Schiraldi è il cantastorie del Pupkin Kabarett e si è fatto conoscere con le sue canzoni ironiche e taglienti; l’ho incontrato un sabato mattina, in un’affollata piazza Unità, e abbiamo chiacchierato un po’.

Abbiamo cominciato bene, parlando di come ha iniziato: l’immagine di lui bambino che tamburella sul cestino di plastica del bagno è insieme divertente e tenera.

La musica, quindi, l’ha accompagnato da sempre, portandolo contemporaneamente a comporre anche i testi, oltre gli studi di chitarra, fino ai primi gruppi, fino ad oggi. Gli chiedo se la situazione di adesso è quella che si era aspettato, se è quello che da ragazzo pensava di fare. Mi risponde che non sa cosa voleva fare “da grande”, ma la musica no, non era quello il suo obiettivo: la musica “è una dimensione privata”, un qualcosa che fa parte della sua vita da sempre, ma in maniera personale. E anche quando, nel 2012, è approdato al teatro, con lo spettacolo di Marko Sosic La melodia del corvo tratto da un romanzo di Pino Roveredo la musica è rimasta un lavoro “che lo va a cercare” più che cercato.

Quando gli chiedo di definire il suo impegno artistico, mi risponde che “è un genere sempre in crescita, sempre diverso”. Dopo la chitarra è passato pian piano a delle sonorità più elettriche, da lì è stato facile arrivare ad un periodo più duro, ascoltando CCCP è arrivato al rock, che ha continuato ad evolversi anche al folk. “Mi piace un po’ far casino”, dice: mescolare i generi, scoprirli, passare da uno all’altro.

Alla domanda “Con chi ti piacerebbe suonare?” mi spiega che ha sempre cercato di suonare con musicisti con cui stava bene soprattutto dal punto di vista umano, prima che musicale. A proposito della sua band attuale, usa parole di affetto e ammirazione: con Gabriele Cancelli, il trombettista, c’è un bellissimo feeling anche grazie alla sua capacità di trovare continuamente sonorità dall’elettronica latente. Ne fanno parte inoltre Valentino Pagliei che suona il contrabbasso e Romano Bandera alle percussioni: con entrambi suona da diverso tempo, sempre con entusiasmo. Per quanto riguarda la serata al Lunatico Festival, non bisogna dimenticare, un elemento in più, Andrea Gullo all’elettronica, e, infine, Marcela Serli, che con Schiraldi aveva collaborato in ambito teatrale con lo spettacolo Dell’umiliazione e della vendetta e che è salita sul palco insieme agli altri per alcune canzoni.

Continuando a chiacchierare, siamo arrivati a Trombeta stonada, il primo album, e anche l’unico, per il momento. È un argomento che porta inevitabilmente a ricordare un vecchio mondo di letterati, dato il chiaro riferimento ad Anita Pittoni, di cui ha pensato di mettere in musica alcune delle sue composizioni. Mi spiega che forse a causa della lontananza e di un po’ di nostalgia, un giorno in Toscana si è trovato a scrivere dei versi in dialetto triestino e, tornato nella città di Saba, ha pensato di dare vita a Trieste dormi?, una serie di incontri culturali che univano poesia e musica, naturalmente in dialetto triestino.

A proposito delle sue esperienze in ambito teatrale, restano da citare i due atti unici Il cortile e Pali di Spiro Scimone e The story of the panda bears told by a saxophonist who has a girlfriend in Frankfurt del rumeno Matej Visniec, oltre, naturalmente, alla collaborazione con Rumiz, iniziata con Demoghela: storie del fronte nord orientale, che parla di guerra. Con lui metterà in scena anche Come cavalli che dormono in piedi alla fine di quest’anno, al Rossetti: a quanto pare, ci sono idee e speranze per il futuro. Lavorare per il teatro, si vede da come ne parla, si sente dalle parole che usa, è una cosa che lo appassiona: ho letto in un’altra intervista che gli piace anche più di stare su un palco a cantare, ma non lo interrompo per chiedergli se è vero: “Del teatro mi fa andare fuori di testa che è evanescente: o sei lì nel momento in cui lo spettacolo è in scena, o non c’è più. Lavorare per il teatro significa partire dal niente e far crescere pian piano ogni cosa, dai testi alla musica, dalla scenografia ai costumi. Non deve emergere qualcosa in particolare, deve essere tutto uguale, tutto sullo stesso piano, in equilibrio, anche la musica.”

Mi piace ascoltarlo mentre tenta di spiegarmi che cosa intende: un lavoro certosino, una precisione che non permette nemmeno alla musica di prevalere. Non sono certa di aver compreso perfettamente, ma ho idea di trovarmi di fronte una persona che ama quello che fa e che ama farlo bene, mi tornano in mente le parole di poco prima, quando gli avevo chiesto delle sue canzoni e mi ha parlato di empatia: a pensarci bene, non so proprio cosa possa significare mettere tutto in equilibrio per dare vita ad un’opera teatrale, ma mi sento comunque vicina alle sue emozioni.

Mi raccontava che per i suoi brani prende spunto da quello che vede in giro, osservando le persone: c’è molta vigliaccheria, la gente non è felice e ha molta paura. Questo è “il grande male del nostro mondo” ed è in questo baratro che scava per trovare materiale per i suoi testi, soprattutto per quelli in italiano. Ascoltando le sue strofe ci accorgiamo che c’è sempre, comunque, uno sbocco verso la luce, magari costeggiando l’abisso, ma con un pizzico di ironia che salva la situazione: è qui che entra in scena l’empatia, la capacità di ritrovarsi anche nelle brutture degli altri, ma senza condannare, con comprensione e quasi con affetto. Lo interrompo perché mi viene in mente un suo verso: “L’omo xè cussì el devi farse e far del mal”. Ridacchia e conferma, ricordandomi che si tratta della sua prima canzone in triestino. Negli scritti in dialetto, invece, la dimensione si fa più “cittadina”, e l’umorismo, indispensabile per Schiraldi, diventa quasi autoironia nel presentare i triestini come delle “macchiette”. A suo parere non va dimenticato quanto Trieste sia cambiata negli anni: da città chiusa, scontrosa, quasi paurosa di uscire dagli schemi già stabiliti da anni, sta diventando un posto nuovo, sempre più aperto, più vitale. Dice di essersene accorto per la prima volta tornando dalla Toscana e obietto che anche le persone, con le nuove esperienze, cambiano e vedono le cose vecchie con occhi nuovi. Pur dandomi ragione, insiste: è un processo lento, iniziato con la caduta del muro di Berlino, con la caduta dei confini, e che in città è stato palese anche grazie alla Facoltà di Scienze della Comunicazione che ha portato una ventata di energia e di gente nuova.

A questo punto gli ricordo Nissun che me scrivi: “…mai dir quel che te pensi” e gli chiedo se fino a questo momento mi ha raccontato solo sciocchezze. Di nuovo ridacchia: le frasi estrapolate dal contesto possono essere pericolose, e quella che ho citato si inserisce perfettamente nel personaggio di L’omo xè cussì”.

Resterebbe tanto da dire analizzando le sue composizioni, ma mi interessa sapere qualcosa di più di Komedija Solz. A comedy of tears, un film che in settembre sarà presente al concorso Film Festival di Portorose e successivamente a quello di Villaco e di Londra. Per la prima volta Schiraldi ha composto musiche per il cinema, ha associato sonorità che riteneva adeguate alle scene di un film e ne è rimasto soddisfatto: “è un film molto interessante, con i registi, e l’idea è di Marko Sosic che lo ha scritto e diretto”.

Per salutarci, era d’obbligo chiedergli un parere sul “Lunatico”: non era la prima volta che partecipava (e nemmeno l’ultima, speriamo) ed era una buona occasione per passare e far passare una bella serata: il parco è affascinante, basti pensare alla sua storia, a come è stato riqualificato, a tutto il lavoro che è stato fatto per renderlo quello che è adesso, e il programma del Festival aveva in calendario proposte davvero interessanti.