Jhumpa Lahiri, scrittrice italiana

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Una bengalese anglofona si confronta con la nostra lingua

di Luisella Pacco

 

Voglio attraversare un piccolo lago. È veramente piccolo, eppure l’altra sponda mi sembra troppo distante, oltre le mie capacità. So che il lago è molto profondo nel mezzo, e anche se so nuotare ho paura di trovarmi nell’acqua da sola, senza nessun sostegno. […] Per un mese nuoto in tondo, senza spingermi al largo. È una distanza molto più significativa, la circonferenza rispetto al diametro […] Però sono sempre vicina alla riva. Posso fermarmi, posso stare in piedi se mi stanco. Un buon esercizio, ma non certo emozionante.

Finalmente un giorno Jhumpa trova il coraggio di attraversare. Arriva a fiere bracciate dall’altra parte. Ce l’ha fatta, esulta.

 

Si apre con questo episodio, l’ultimo libro di Jhumpa Lahiri, scrittrice che amo molto, non solo per l’opera e lo stile ma anche per la discrezione e la spiccata tendenza alla modestia (nonostante nel 2000 abbia vinto il premio Pulitzer per la narrativa e dal 2012 sia membro dell’American Academy of Art and Letters).

Nata nel 1967 a Londra da genitori bengalesi, vissuta negli Stati Uniti dall’infanzia in su, ha scritto L’interprete dei malanni, Una nuova terra, L’omonimo (da cui è stato tratto il film Il destino nel nome diretto da Mira Nair), La moglie.

Ma il suo ultimo libro, In altre parole, è completamente diverso dai precedenti, per due ragioni. La prima, meno importante ma assolutamente non trascurabile, è che si tratta di un libro autobiografico (una gran fatica per chi sia così riservato), commovente atto d’amore e di confidenza verso i lettori; la seconda, che trovo eccezionale, è che sia stato scritto in italiano.

Sì, perché Jhumpa (perdonatemi, mi viene di chiamarla così, come se fosse un’amica che incontrerò nel pomeriggio) ama la nostra lingua fin da quando è ragazza.

Viaggiando in Italia, è ammaliata dai suoni che ancora non comprende. Sento una connessione insieme a un distacco. Una vicinanza insieme a una lontananza. Quello che provo è qualcosa di fisico, di inspiegabile. Suscita una smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine.

Da allora, studia l’italiano con scrupolo e passione, da sola e prendendo lezioni. Ma è come nuotare lungo le sponde di quel lago. Non si rischia nulla finché l’altra lingua ti sostiene, ti salva dagli imbarazzi, ti toglie dagli impicci.

Per conoscere una nuova lingua, per immergersi, si deve lasciare la sponda. Senza salvagente. Senza poter contare sulla terraferma.

È quello che fa, scegliendo di vivere qui, consegnandosi completamente all’italiano, costringendosi ad ascoltarlo e a usarlo in ogni esigenza quotidiana, perché alla fine per imparare una lingua, per sentirsi legati ad essa, bisogna avere un dialogo, per quanto infantile, per quanto imperfetto.

Trova parole nuove, le raccoglie come fossero frutti di bosco, ne prende nota su un taccuino che diviene strumento prezioso. È un lavoro quasi disperato, una fatica di Sisifo. Alla fine della giornata, il cestino è pesante, ma non tutti i piccoli frutti vi rimangono dentro, alcuni termini evaporano nell’aria, vengono dimenticati in poche ore. Perché il cestino non è altro che la memoria, e la memoria mi tradisce, la memoria non regge.

Nei primi mesi a Roma, tiene un diario, qualcosa di segreto, quasi proibito, da adolescente, un luogo privatissimo dove poter sbagliare, andare a tentoni, come un semianalfabeta. Di notte si alza per scrivere qualcosa in italiano, e se si osserva da fuori, ne rimane perplessa, incantata. Non riconosco la persona che sta scrivendo questo diario […] ma so che è la parte più schietta, più vulnerabile di me.

Questa abitudine le fornisce una disciplina, ma anche questo è un po’ come costeggiare la sponda, è come parlare da soli, chiudersi in casa a vaneggiare. Dov’è la sfida, dov’è l’abbandonarsi all’acqua buia e profonda?

Inizia a scrivere qualcosa da sottoporre all’insegnante, che le restituisce il foglio pieno zeppo di segni rossi. È un percorso frustrante, doloroso. E anche quando smette di commettere errori, non la attende forse una difficoltà ancora più temibile?

Tra due tre quattro sinonimi, tra tante parole ugualmente corrette, un madrelingua ne sceglie una sola, e lo fa per misteriose ragioni che egli stesso sa spiegarsi solo vagamente, muovendo due dita nell’aria accanto all’orecchio e dicendo “non so, mi suona meglio…”. È un’attività quasi inconsapevole, di minuzie e di ripensamenti, un paziente lavoro di setaccio. Una capacità che viene dall’aver sempre parlato, sempre udito, sempre respirato.

Quasi con invidia Jhumpa Lahiri ricorda Cesare Pavese, che tra il 1948 e il 1950 intrattiene una fitta corrispondenza con Rosa Calzecchi Onesti, ormai famosa per le sue traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea, intervenendo su molte parole e suggerendone altre, a volte solo leggermente diverse ma che, appunto, suonano meglio.

Pavese e Calzecchi Onesti fanno quello che fanno tutti gli scrittori al mondo, e chiunque si occupi di scrittura: cercano di trovare la parola giusta, di selezionare alla fine quella più azzeccata, ficcante. […] un processo estenuante, a volte esasperante. Chi scrive non può evitarlo. Il cuore del mestiere risiede qui.

Che sofferenza, che angoscia spossante dev’essere per Jhumpa, scrivere in una lingua di cui non sente le astuzie, le stonature o le armonie.

Perché affrontare tutto questo? Perché una scrittrice notissima nel mondo, che potrebbe starsene sugli allori di sicuri successi, sceglie di mettersi in gioco in questo modo quasi masochistico?

La risposta è qui. Jhumpa Lahiri si è sempre confrontata con barriere che la allontanavano o persino la escludevano. Limiti, distanze ed esilio, temi centrali nella sua opera, che umanamente l’hanno fatta soffrire. Per l’aspetto fisico, in America le chiedono perché non scriva in bengalese; in Italia, le persone le si rivolgono in inglese (“May I help you?” Quattro parole garbate che mi spezzano il cuore) e restano interdette, persino infastidite davanti al suo italiano perfetto, quasi non fosse suo diritto conoscerlo così bene.

Quando scrivo non c’entra il mio aspetto, il mio nome. Vengo ascoltata senza essere vista, senza pregiudizi, senza filtro.

Quando scrivo in italiano devo accettare un secondo muro, altissimo, ancora più ermetico: il muro della lingua in sé. Ma dal punto di vista creativo, questo muro linguistico per quanto esasperante, m’interessa, mi ispira.

Per Jhumpa, in perenne oscillazione e conflitto tra bengalese e inglese, tra lingua d’origine e lingua di formazione, tra lessico dell’intimità familiare e del ruolo pubblico, l’italiano è una fuga, un sollievo. Ora, è il terzo vertice di un triangolo che la definisce come essere umano e come autrice.

Giunta fin troppo velocemente al successo (se ne sente quasi indegna) e all’autorevolezza che ne deriva, in italiano può lavorare a ogni singola frase con umiltà, liberamente, senza la responsabilità di essere considerata un’esperta. Posso smantellarmi, posso ricostruirmi. È un momento rischioso, di metamorfosi e di cambiamento, certo. Ma c’è forse qualcosa di più autentico nella vita?

I momenti di transizione, in cui qualcosa si trasmuta, costituiscono la spina dorsale di tutti noi. Che siano una salvezza o una perdita, sono i momenti che tendiamo a ricordare. Danno un’ossatura alla nostra esistenza. Quasi tutto il resto è oblio.

Non è un caso che il suo primo breve racconto in italiano parli di una traduttrice che si considerava imperfetta, come la prima stesura di un libro. Voleva generare un’altra versione di se stessa.

[…] Scelse una città in cui non conosceva nessuno, non capiva la lingua […] Arrivò mentre la stagione stava cambiando […] Cominciava a sentirsi leggera, anonima. Immaginava di essere una foglia che cadeva, identica a ogni altra. […] Non pensava né al futuro, né alle tracce della sua vita. Sospesa nel tempo, come una persona senza ombra. Eppure era viva, si sentiva più viva che mai.

 

 Copertina:

 

Jhumpa Lahiri

In altre parole

Guanda, Milano 2015

pp.154, 14 euro