Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

ASTENUTO

 

Il verbo astenere è figlio del latino abstinere, formato dal prefisso abs che vuol dire «lontano da» e dal verbo tenere, che in italiano è sopravvissuto identico. L’astenuto è dunque quello che tiene lontano da sé qualcosa. Nel caso delle elezioni e dei referendum sono quelli che non si avvalgono del diritto-dovere di votare.

Gli astenuti costituiscono sempre casi interessanti. Il più celebre degli astenuti resta Ponzio Pilato, che si lavò le mani della sorte di Gesù: uno dei mille esempi di come sappia svicolare la politica quando deve decidere tra un sì e un no: qualcuno dovrebbe fargli una statua.

Dal Vocabolario della Crusca apprendiamo: «lavarsi le mani d’una cosa: dicesi del non se ne volere assolutamente più impacciare»; l’attestazione più antica risalirebbe al 1566, nella commedia Il Granchio di Lionardo Salviati.

L’eroe moderno dell’astenersi è certo Bartleby lo scrivano, reso immortale dal racconto di Melville (1853). Il mite Bartleby, dalla «signorile nonchalance cadaverica», di fronte a ogni scelta, da un certo punto della sua vita in poi, aveva deciso di rispondere invariabilmente «Preferirei di no» («I would prefer not to»). A differenza di Pilato, fece una brutta fine.

Pessima fine fece anche il proverbiale – tra i filosofi medievali – asino di Buridano, che non trovando un motivo per scegliere tra due mucchi di fieno uguali, si lasciò morire di fame. Per chi crede ancora che la filosofia si occupi solo di cose astrattissime: quell’asino fece discutere Spinoza, Leibniz e Voltaire. Il tema filosofico tutt’altro che agevole era se esistano o meno due cose talmente uguali da non fornire i motivi di una scelta ragionevole. Quelli che si astengono pensano di sì.

Nel funesto 1922, Giuseppe Prezzolini, pochi mesi prima della marcia su Roma, inventò una parola: apoti. La prese dal greco per intendere «quelli che non la bevono», intendendo che le varie forze politiche offrivano, come dicono in tanti, sempre la stessa brodaglia, evidentemente indigeribile.

Non scegliere dà dunque un certo senso di libertà.

Oggi è interessante che nel nostro Paese gli astenuti sono da tempo il partito non partito di maggioranza; ed è interessante che contino molto nel caso dei referendum e non contino nulla nel caso delle elezioni.

Un referendum sarà infatti ritenuto valido solo nel caso in cui i Bartleby e i Buridani italiani siano la minoranza. Nel caso siano la maggioranza – è accaduto tante volte – possiamo dire che vincono loro.

Nel caso delle elezioni, invece, la nostra Costituzione prevede che siano valide anche se andassero a votare solo due persone.

Tutti i partiti si dichiarano concordi nel riconoscersi preoccupati per il «dilagante astensionismo»: l’espressione su Google dà 62.800 risultati.

Troviamo sul Sole 24 ore (9 agosto 2022), che non dovrebbe essere un giornale satirico, una proposta che potrebbe essere un rimedio ma che certo non sarà mai accolta: i 600 seggi parlamentari dovrebbero essere assegnati non tutti, ma solo nella percentuale corrispondente a quella di chi ha espresso il proprio voto: se vota il 50% degli aventi diritto, si assegneranno 300 seggi.

Certo i 300 seggi vuoti farebbero un certo effetto quanto meno scenografico. E certo i partiti avrebbero motivo di darsi da fare per convincere i Bartleby e i Pilati italiani ad andare a votare.

Nutriamo una flebilissima speranza che la proposta possa essere presa in considerazione, dovendo essere votata dagli stessi parlamentari che – come stiamo vedendo – si seccano molto quando si impedisce loro di estrinsecare la loro vocazione a dedicarsi al bene di tutti.

FASCISTINA

 

Se le parole fossero davvero pietre, molti di quelli che di parole vivono sarebbero sotto un ponte. Per loro fortuna – e nostra? – le parole sono palline di pongo, quel materiale modellabile all’infinito che si può appallottolare o stirare di qua e di là: il pongo si dona ai bambini perché imparino che ci si può fare un gatto, e quindi un ratto, e poi un elefante o una pistola: nulla col pongo è irrimediabile, ogni forma è provvisoria. Proprio perché le parole sono come il pongo, i dizionari sono tenuti ad aggiornarsi continuamente.

Il poeta Auden usava una metafora più umana: diceva che le parole sono tutte puttane. Nel senso che si fanno dire da chiunque, disposte a prendere significati anche perversi, oggi uno domani un altro. Se non fosse così, nessuno potrebbe difendersi dicendo di essere stato frainteso, soprattutto quando è stato capito benissimo.

Prendiamo una recente dichiarazione del presidente di Mediaset, e della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, Fedele Confalonieri. In un’intervista in cui ha dichiarato tutta la sua simpatia per il presidente del partito Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, l’unico difetto che le ha riconosciuto è di essere «un po’ fascistina». Quell’«un po’» prima del diminutivo attenua ulteriormente il significato di un aggettivo che potrebbe suonare minaccioso. Diciamo che gli dà un non so che di pruriginoso: come un accenno a qualcosa di saporosamente proibito, e volentieri tollerato, che cerca la complicità di chi ascolta.

Chissà cosa avrebbe detto di questo «fascistina» l’inventore del fascismo, al quale piacevano i superlativi. La serie di leggi che promulgò tra il 1925 e il 1926, e che trasformarono l’Italia in un regime totalitario, le chiamò fascistissime.

C’è sempre la possibilità – che per rispetto al presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano vorremmo escludere – che, definendo Giorgia Meloni «un po’ fascistina», stesse facendo dell’ironia: che il presidente Confalonieri, uomo colto e arguto, strizzando a noi l’occhio, stesse inventando un’antifrasi, per farci intendere che Giorgia Meloni è una «fascistona». Teniamoci quindi alla lettera.

«Un po’ fascistina» deve essere il grado quasi zero, la dose omeopatica, di quell’ideologia che ebbe un tale successo da donare – come pizza, mamma e paparazzo – un nuovo lemma italiano alle lingue del mondo.

Come accade con le parole sia vecchie che nuove, a pensarci tanto si aprono abissi mai del tutto sondabili. A proposito del sintagma «un po’ fascistina», non può non venire in mente il micidiale argomento del sorite, attribuito all’oscuro Eubulide di Mileto (IV sec. a.C.): sorite in greco significa mucchio. Dice così: si può sapere quanti semi di grano occorrono per fare un mucchio? Certo più di uno, ma quanti? Impossibile dirlo! – E dunque: quando fascista degrada a «un po’ fascistina» e viceversa?

C’è la possibilità che la parola «fascista» sia una di quelle non proprio elastiche come il pongo. Magari è una delle rare parole pietre. Per esempio, per consolare una signora che si ritrova ad avere una gravidanza indesiderata, non si può dire che è «solo un po’» incinta, tanto meno che è «un po’ incintina»; o a una vedova inconsolabile che suo marito è solo «un po’ defuntino»; e neppure, per invitare alla giusta umiltà un potente, avvertirlo che è solo «un po’» presidentino della Repubblica, o di Mediaset, o della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano.

Però gli esperti dicono che viviamo in tempi post-ideologici. Potremmo dire che siamo nell’età in cui i princìpi diventano principini? Ci attende una rivoluzione dei vocabolari per quel che riguarda il gergo politico. – Usando l’idioletto di Confalonieri, gli italiani «un po’ fascistini» sarebbero addirittura un quarto di quelli che ancora vanno a votare. Naturalmente potrebbero aumentare come diminuire. Molti però hanno la sensazione che prevalgano in ogni caso quelli «un po’ democristianini». Mentre pare si siano sciolti come un ghiacciolo al sole quelli «un po’ comunistini».

 

FETO

 

Il lemma feto ci viene dal verbo greco féo (φύω), che vuol dire generare. E fin qui tutti d’accordo. Il dizionario Treccani ci dice che si comincia ad essere un feto attorno al secondo mese di gestazione: quando si inizia a capire, per esempio, se si diventerà un ragioniere e non una quaglia o una sogliola. Lo Zingarelli concorda. Il dizionario Devoto-Oli specifica però che feti sono solo i prodotti del concepimento dei mammiferi. Si legge lo stesso nel Grande Dizionario della Lingua Italiana della Utet (noto come il Battaglia), che però posticipa la trasformazione dell’embrione in feto al terzo mese. Per il Battaglia e il Devoto-Oli non esiste il feto del pinguino o del camaleonte. Non avendo bisogno di vocabolari, non crediamo che quelle creature se ne adontino.

Ma questo è il meno.

Si vedrà ancora una volta che il destino di tutti i dizionari è correre dietro all’uso delle parole come Achille insegue l’imprendibile tartaruga (che non sapremo mai se sia stata un feto o no).

Mentre i dizionari se la cavano unanimi nel definire il feto «il prodotto del concepimento» da un certo mese in poi, non si pronunciano su cosa questo feto sia. In particolare: il feto di una balena è una balena? E quello di un uomo?

In Texas, è accaduto questo: una signora in stato di gravidanza guidava la sua autovettura nella corsia riservata a chi ha almeno un passeggero a bordo. Già questa moltiplicazione delle corsie ci fa invidiare il Texas. La signora è del tutto esperta di stati di gravidanza, avendo avuto già tre figli. Con sua sorpresa, viene fermata da una pattuglia della polizia, che le commina una multa in quanto agli agenti pare evidente che lei nell’automobile sia sola. Gli agenti non mettono in discussione che la signora sia incinta, ma negano il fatto che ciò sia sufficiente per dire che nel veicolo ci siano due persone. È possibile che quei poliziotti siano, come pare la maggioranza dei texani, antiabortisti e che dunque condividano la fede che il feto che la signora ha in grembo sia una persona: ma questo non li ha persuasi che la donna avesse diritto alla corsia per automobili con almeno due persone a bordo. I poveri agenti devono essersi trovati, come dicono gli psicologi, in una seria dissonanza cognitiva.

La signora del Texas si è ritenuta vittima di un’ingiustizia, e a decidere quante persone fossero in quel momento nella sua automobile sarà un giudice. Temiamo una proliferazione di imbarazzi.

Nei casi dubbi, ci insegna Aristotele, dobbiamo affidarci a chi ne sa di più: è il principio di autorità, è l’ipse dixit, come dicevano i pitagorici. Proponiamo san Tommaso d’Aquino, che essendo santo e dottore della Chiesa (di più: tra tutti i dottori il Doctor Angelicus), ha un curriculum che neppure Mario Draghi. Se i santi sono tanti, i dottori della Chiesa sono pochi: l’élite.

Ora il Doctor Angelicus, se fosse vivo, farebbe bene a non andare in certi stati degli U.S.A.: facile che qualcuno poco incline alla dialettica gli spari. San Tommaso afferma infatti che, fino a quando nel feto non si è avuta la perfetta formazione del cervello, non possiamo dire che sia un essere umano. Dante mirabilmente riassume così: si diventa uomini, e donne, solo quando «l’articular del cerebro è perfetto», solo allora «lo motor primo (…) spira /spirito novo di vertù repleto» (Purg. XXV, 69-72): in parole povere, si diventa una persona solo quando Dio, attorno al terzo mese, dona al feto l’anima. Se il giudice in Texas fosse san Tommaso, la signora dovrebbe pagare la multa se è incinta di pochi mesi; dopo no.

Pare allora che il passaggio da feto a persona non sia un’evidenza, ma una decisione. Le decisioni a volte sono difficili.