PROFILO DI UNA CITTÀ: GIUSEPPE SOMMARUGA A TRIESTE

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Maurizio Lorber

 

Giuseppe Sommaruga fu l’unico dei tre grandi architetti liberty italiani, accanto a Ernesto Basile e Raimondo D’Aronco, a progettare un edificio a Trieste. Sebbene si tratti di un solo palazzo moltissime costruzioni che oggi identifichiamo a prima vista quali esempi di liberty devono al Teatro Filodrammatico di Viale XX Settembre l’ispirazione iniziale.

La facciata di questo edificio ha un precedente singolare seppure, per l’arte contemporanea oportet ut scandala eveniant è cosa buona che vengano gli scandali. Così fu per Palazzo Castiglioni progettato dall’architetto milanese. Le statue della facciata raffiguranti figure femminili – scolpite da Ernesto Bazzaro – furono rimosse e ricollocate in un altro palazzo dello stesso Sommaruga (Villa Romeo, ora Clinica Columbus) poiché il michelangiolismo lascivo imbarazzava i passanti. Queste figure fin troppo esplicite furono sostituite da due “austere cimase” di Ambrogio Pirovano, lo stesso autore al quale fu commissionata la decorazione scultorea del palazzo in viale XX Settembre.

Questa vigoria anatomica non destò invece alcuno scandalo a Trieste anche se, a ben vedere, le procaci matrone poste all’entrata del teatro – poi cinema Arcobaleno, quindi Eden – si differenziano notevolmente da quelle eseguite per Palazzo Castiglioni. In quest’ultimo erano disancorate dal sistema degli ordini e non simulavano alcuna funzione di sostegno o di coordinamento della partizione di facciata. Le figure del palazzo triestino invece sono delle cariatidi che, pur senza funzione portante, si innestano per tre quarti sui pilastri e invadono con le braccia e i drappi gonfi per il vento il fregio continuo ad altorilievo.

Queste sculture potevano vantare un illustre precedente a Trieste e precisamente lo scomparso teatro Armonia (1857) che esibiva in facciata una teoria di cariatidi che accoglievano trionfalmente il pubblico. (è ancora possibile ammirarle poiché, nel 1920, furono parzialmente recuperate nel ripristino di un antico edificio prospiciente la strada nella valle delle Noghere).

L’esuberante apparato decorativo fu realizzato da Ambrogio Pirovano in pietra artificiale, una sorta di stucco moderno che sembra rifarsi, non solo nella tecnica, all’arte barocca. Così, sopra il portale d’ingresso, due putti sono colti nell’atto di srotolare un’iscrizione. La dinamica compositiva è tale che i piedi e i drappi di uno dei due fanciulli finiscono per coprire una parte della finestra.

Giuseppe Sommaruga rappresenta per l’architettura triestina quello che in filologia si classifica come hápax legómenon ovvero qualcosa che si riscontra una sola volta. L’architetto milanese estraneo al mondo mitteleuropeo fu interpellato dai due ingegneri Cesare Viviani e Arturo Giberti, titolari dell’omonima impresa di costruzione. Possiamo ipotizzare che il nome fosse stato suggerito loro dalla famiglia Faccanoni per la quale Sommaruga aveva già lavorato. Infatti è stato fatto notare – in un dettagliato articolo sull’edificio triestino di Diana Barillari – che l’ingegnere Pietro Faccanoni era presente in città a partire dal 1903 con un’impresa di costruzioni portuali. Sommaruga tuttavia non fu coinvolto fin dall’inizio nell’ambizioso progetto poiché il teatro, inizialmente, doveva far parte di un gruppo di costruzioni di pubblica utilità che avrebbe occupato il pianoterra e il primo piano dell’edificio con una sala per “Caffè concerto” e un ristorante. Problemi normativi impedirono l’attuazione totale del progetto e contrariamente a quanto era stato capace di realizzare Max Fabiani con il Narodni dom, Viviani e Giberti non furono in grado di trovare soluzioni apprezzabili. Forse per tale motivo si dovette necessariamente coinvolgere un architetto più esperto.

Inizialmente il teatro non era stato pensato come tale, ma piuttosto come una sala di trattenimento e riunioni; in seguito il Sommaruga ampliò l’invaso spaziale comprendente la zona per il pubblico e il palcoscenico prolungandosi oltre il cortile dell’edificio e andando a occupare anche quello spazio che Cesare Viviani e Arturo Giberti avevano previsto come cortile dei due edifici gemelli che si sarebbero dovuti costruire in tempi immediatamente successivi (1908).

La sala, smantellata nel 1951 per rispettare le norme anti incendio, presentava una galleria aggettante, con curva e controcurva, alla quale si accedeva attraverso una scala a tenaglia che diventa il punto focale di raccordo visivo e distributivo degli spazi.

Da un articolo de Il Piccolo del 26 dicembre 1907 comprendiamo qual era l’effetto visivo suscitato da tale realizzazione: «… la leggerezza della volta che pare un velario, sospeso fra due lucernari laterali donde è versata naturalmente la chiarità grigia del giorno. Su questo velario Giovanni Zangrando gettò prestamente una vasta composizione allegorica, che s’apre a uno sconfinato turchino di cielo e si fonde alla delicata intonazione chiara e dorata della sala, ci risponde di qui l’azzurrognolo delle poltroncine svelte e armoniche le quali rompono la festosa ma noiosa tradizione di porpora dei nostri teatri».

L’ideazione di Sommaruga si ispira certamente agli antichi teatri romani, noti attraverso le descrizioni di Plinio il Vecchio, il quale ci informa dell’uso di teli colorati che velavano la luce intensa. In tale ottica è comprensibile la scelta del colore delle poltroncine, che il Sommaruga volle azzurre, quasi fossero colorate dall’intonazione luminosa che traspare dal velario: «È questo il caso dei teli gialli, rossi e verdi che tesi sui nostri vasti teatri fluttuano e ondeggiano lungo sui pilastri e le traverse; sotto di essi, tutto il pubblico riunito sui gradini, la scenario, le file auguste dei senatori si colorano e si tingono di quei nobili riflessi […] gli oggetti sono bagnati da quei colori ridenti, nella luce ridotta del giorno». Così Lucrezio (96 ca. – 51 ca.) descriveva l’effetto prodotto dai velari nel De Rerum Natura (IV; 75-83); infatti, non a caso, il giornalista de Il Piccolo nel suo articolo descrisse la volta assimilandola a un velario sospeso fra due lucernari, pronti ad accrescere l’impressione di luminosità trasparente, confortandoci nell’ipotesi che l’ideazione decorativa fosse una bizzarra citazione del teatro antico.

Non sono sopravvissute nemmeno le decorazioni interne dell’edificio: i fregi in cemento, le foglie giganti, i pampini, i puttini, i fiorami in ferro battuto che, ideati dal Sommaruga e realizzati da Ernesto Pirovano, si espandevano lungo la balaustra della platea. Questi interni furono il modello per la “galleria a stucco”, di Giovanni Maria Mosco, al numero 12 di via Tigor. Lo stupendo androne di palazzo, che lascia stupefatti anche i turisti stranieri, purtroppo richiama la nostra attenzione sul totale abbandono di uno degli esempi più mirabili della decorazione scultorea triestina. Altresì non è difficile immaginare Giovanni Maria Mosco, giovane Baumeister triestino, mentre sbircia fra le impalcature ciò che si andava edificando in facciata su progetto del noto architetto milanese. Conseguentemente le soluzioni scultoree nel complesso di via Tigor (facciata su via S. Vito) furono sviluppate sull’onda della fantasia prorompente di Sommaruga.

Che Sommaruga abbia lasciato una traccia indelebile sull’architettura triestina lo confermano alcuni dettagli presenti in edifici che non appartengono allo stile Liberty; così l’idea di legare a catena le finestre dell’ultimo piano con un fregio continuo è ripresa anche dai due maggiori architetti triestini, Ruggero ed Arduino Berlam, nel palazzo della RAS.