Un’artista iraniana a Trieste

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Banafsheh Rahmani, in Italia dal 2004

di Francesco Carbone

 

La copertina di questo numero del Ponte rosso è un particolare del quadro Dialogo di Banafsheh Rahmani. Si tratta di una tela dipinta a olio di 1,50 m per 1,35. È un’opera del 2018. Si nota subito la sicurezza e la libertà della pennellata, la grande ricchezza della tavolozza, la spregiudicatezza, il gusto per l’azzardo negli accostamenti cromatici, nella stessa scelta di porre al centro le due figure umane appena accennate.

Banafsheh Rahmani è nata a Tehran nel 1972, dove si è laureata al corso di Laurea di Pittura dell’Università d’Arte e d’Architettura di Teheran. Sempre a Teheran si è specializzata in Ricerca dell’Arte. Ha insegnato pittura all’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei ragazzi e degli adolescenti (Kanoon) e all’università Azad di Tehran. Vive in Italia dal 2004; qui si è laureata in Storia dell’Arte. Espone regolarmente in rassegna anche internazionali e, a Trieste, in particolare per la galleria “Torbandena”. Il suo studio è in Androna Santa Tecla, uno degli angoli più silenziosi della città; è uno spazio luminoso, arioso. Da due anni Banafsheh Rahmani lo condivide regolarmente con una dozzina di altri artisti accomunati dall’interesse per la figura umana. Quest’anno, il frutto di questa ricerca è stato offerto in una mostra che si è svolta sempre nel suo studio: non pochi mi sono sembrati gli artisti interessanti.

 

Ludwig Wittgenstein ha scritto che le parole sono, in certe occasioni essenziali, grossolane come dita che pretendono di rammendare una ragnatela. Certo la pittura è uno di questi casi. Tra le pochissime che azzarderò, guardando e riguardando Dialogo e altri lavori dell’artista, sono “classico” e “romantico”, non come due termini di un’antinomia, ma come due lati dello stesso gesto artistico (più volte, nel dialogo che ho avuto con la pittrice, lei si è ritrovata a parlare di sé in termini antinomici: solitudine e condivisione, leggero e pesante…): classica & romantica mi appare la pennellata e la trasfigurazione che fa dei suoi soggetti. A me – non necessariamente a lei – vengono in mente i gesti pittorici più liberi e rapsodici di Delacroix, Constable, Rubens, dell’ultimo Tiziano: pittori in cui la pennellata si emancipa radicalmente dal disegno, che pure resta sotteso: come un’arte appresa per essere, nel gesto pittorico, dimenticata, gettata in una condizione di rischio.

«Io non cerco la bellezza», dice a un certo punto Rahmani; dove per bellezza s’intende la bella forma, «la bella mano», la virtuosistica definizione di ogni cosa. Che la «bellezza» sia una scorciatoia, un manierismo, è una consapevolezza dei veri artisti. Ed è di tutte le arti. In uno dei due ultimissimi libri di Roberto Calasso, Bobi, si racconta di Bazlen che, leggendo le traduzioni che fece Cristina Campo delle poesie di William Carlos Williams, invitava la scrittrice a evitare anche «il sospetto di una bellezza troppo evidente». Mi pare che in Banafsheh Rahmani agisca lo stesso riflesso, lo stesso bisogno di non ripetersi mai in quanto sa già fare bene.

Nel dialogo, che è stato quasi un monologo, Rahmani si è offerta generosamente ma sempre in un accurato e selvaggio campo di non-definizioni. Ascoltandola, mi veniva in mente Tristan Tzara che diceva «parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno». Rahmani non ha mai mostrato interesse per esempio a definirsi con uno «stile», come non si è lasciata rinchiudere – sollievo – in una qualunque intellettualistica «poetica». Carmelo Bene diceva, a quelle persone pigre che sono quasi sempre i critici, che lui le cose non le doveva dire ma fare: è nel fare artistico di Banafsheh Rahmani che mi pare si dia uno «stile», trovato – nei casi più felici – proprio perché non cercato; lì riconoscibilissimo. Quando si parla di altri pittori, Rahmani usa sempre il verbo «guardare»: guardare molto, poco, per nulla; e nei momenti di troppo vaga ispirazione, copia, che è il modo più esatto di guardare. Sulla parete alle sue spalle, è appesa la copia del volto della Giuditta di Caravaggio.

La «poetica» di Rahmani, a me pare, è quindi nei fatti, e di fatto radicalmente in antitesi rispetto a un’arte contemporanea che solo da poco pare dare segni di risveglio dalle imposture del mercato, in cui operazioni aleatorie e sfrontate continuano a uscire, sempre più viete e ripetitive, dal vaso di pandora aperto dal concettuale di Marcel Duchamp (che degli imbrogli inevitabili che sarebbero accaduti era del tutto consapevole).

Molte informazioni sul suo lavoro possono essere rintracciate consultando il web.

 

 

Banafsheh Rahmani

 

Fig.1:

Dialogue

olio su tela, 2018

 

Fig. 2:

Immersion

olio su tela, 2019

 

Fig. 3:

Bather by the lake

olio su tela, 2019