Un buon uso della vita

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Gabriella Musetti nella prima parte di questa sua nuova raccolta ieratica e epigrammatica martella la morte fino a trasformarla in forza immobile, nella seconda elenca il riscatto guadagnato e pagato a caro prezzo

di Sandro Pecchiari

 

La poesia, dice al lettore Gabriella Musetti, evidenzia domande, le circostanzia nei loro termini e conseguenze, le osserva nei gesti, sentimenti, stati d’animo oscuri e ne tenta la decifrazione, tramuta in parole sensazioni vaghe e impercettibili di angoscia o di felicità. Non fornisce risposte (né è opportuno che lo faccia). La poesia è luogo di pensiero e confronto, di dialogo attivo tra le parole sulla carta e quelle nella mente, apre spazi e suggerisce sentieri. È questo l’ascolto della poesia, un ascolto interiore oltre che fonico, una preziosa mescolanza di stati e risonanze intime, qualcosa che da fuori entra dentro e circola parimenti coniugando interno ed esterno.

Questa opera così austera e rigorosa su una serie di donne che giungono alla morte lasciando dietro di sé qualcosa di incompiuto, come capita spesso nella vita quotidiana, manifesta una musicalità e una ritualità nella versificazione che tende a diventare mantra immediato di morte non propriamente simbolica, ripetuto come una litania che si autoalimenta e che contagia e scandisce il ritmo di lettura, aprendo a percorsi interpretativi che sembrano ovvi solo dopo che la poeta li ha evidenziati con chiarezza e messi in versi.

Nemmeno i mantra danno risposte, ma aprono le porte al percorso interiore, alle troppe domande sulla nostra appartenenza e all’oscurità e alla scarsezza delle risposte possibili. Il tentativo di comprendere e di comprendersi sottende un altrove difficilmente appagante se non in una metafisica immaginata. Ma è proprio lo scanso tra questo essere nel mondo e la tensione a non esserci o a percepirsi come mancanti che è il primum mobile della raccolta: la condizione di essere “irrisolti” per motivi storici, culturali, piegati dalla routine quotidiana ripetitiva, così limitante da averne minato forza, potere e autostima, soprattutto nelle donne calate in una Weltanschauung pesantemente ‘maschiocentrica’, che ha creato e ancora crea frustrazione e infelicità. Si tratta invece di fare posto nella propria vita a ciò che è irrinunciabile, anche se non si accorda con i dati della realtà, come scrive Cristina Campo nel saggio letterario Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987.

Trasformare questo in ritualità è fidarsi, vincersi e riscattarsi, impadronirsi autonomamente come meglio si può e si sa del proprio doppio. Ma il doppio non è l’angelo rilkianamente smisuratamente possente che però non risolve, ma indica. Saranno le donne nel Beli Andjeo, poemetto del 2009, ad esempio, intimidite su un metaforico ponte che suggerisce la possibilità di transizione ad altro, a trovare una soluzione, non l’angelo con la sua dimostrazione di sicurezza. Servono angeli di natura differente, ma solo se si entra nella foresta della vita, come nella lettera 271, citata, di Emily Dickinson, nonostante gli avvertimenti dei possibili pericoli e incontri con fiori velenosi o Spiriti maligni. Là si possono incontrare Angeli ritratti e timidi, con i quali provare a fare un percorso assieme.

Così la prima parte di questa nuova raccolta ieratica e epigrammatica martella la morte fino a trasformarla in forza immobile, la seconda elenca il riscatto guadagnato e pagato a caro prezzo. Da una parte la scelta del suicidio e della sottrazione all’esistenza, citando grandi poete quali Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Amelia Rosselli, e molte altre; dall’altra la non-scelta di un esistere senza esserci, non rifiutando la vita, ma soffocandosi in vita: una vita in morte e una morte in vita per richiamarsi a Coleridge. Morti a volte ironiche, teneramente delicate e compassionevolmente sottotono in situazioni qualunque, al supermercato, in cattedra nell’insegnare, all’uscita delle lezioni di danza della figlia:

 

lei era morta andando a riprendere la figlia a danza / per errore aveva aperto / quella stanza e s’era trovata ingarbugliata nella sua vita // senza trovare neppure una via d’uscita

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la sua era stata una morte protratta iniziata tempo addietro / ancora al tempo che pareva intatto speranze attese meraviglia  // e intanto si muoveva su una faglia

(Sylvia Plath)

le donne che non mettono la testa nel forno /sono tutte matte tutte ad aspettare che qualcosa cambi – cambi l’amore / l’umore perfino il destino // che proprio un mattino si desti /un destriero di luce /che le porti via /lontano da questo mondo ombroso da questo mondo tondo e spietato senza empatia

(Marina Cvetaeva)

le donne che non legano una fune a una trave /per librarsi /in aria // libere nei pensieri /accettano la disperazione i momenti neri e remissive /tornano all’occupazione

Fino ad una quasi dichiarazione di poetica verso la conclusione della raccolta:

Come sbirciare la radice/ selvaggia della vita/ da un taglio altro di visuale/ dove l’originaria inferenza/ viene apparecchiata -/ s’annida poi come natura/ come natura resta/ come comportamento

Nella prefazione si chiarisce che il dilemma non è definire quale sia la scelta migliore, se il suicidio o l’accettazione di una mediocrità non rassicurante. Entrambe le soluzioni sono delle non-soluzioni. Musetti suggerisce che «le donne anonime e irrisolte e le grandi scrittrici suicide sono i due aspetti complementari della stessa medaglia, perché il vero nucleo polemico dell’autrice è contro quell’ordine simbolico-sociale che mostra come naturali, e perciò rappresentate come scontate e ovvie, scelte storiche che all’origine hanno avviato le donne verso binari che umiliano la forza inaddomesticata della vita». Anche questi suicidi sono in qualche modo addomesticati, sotto tono, come sotto tono nella cultura imperante, sono stati i comportamenti imposti. Non sono sicuramente i suicidi stentorei alla Qualis artifex pereo con cui Nerone evidenziava la grande perdita che il mondo avrebbe subito alla sua morte.

In questo rito che è contemporaneamente ascolto (della poesia, interiore, fonico nella mente o dal vivo della voce), nella lettura dei diversi aspetti e scelte del vivere una vita di ‘scarti’ da eliminare e scarti come variazioni di direzione, tagli sottili che offrono altre visuali, la penetrazione mantrica incide pulita e senza sbavature.

A tutto questo la poeta fornisce un corposo apparato di annotazioni di pensiero, di poesie, di brani citati di autrici amate, filosofe e poete con il compito di chiarire in modo diretto quale sia la posizione politica di questa poesia e il suo legame riconoscente alle loro parole e al percorso suggerito.

L’inaddomesticato è non ritorno descritto con delicata ironia, un percorso necessariamente individuale irto di scelte e quasi sempre di negazione.

Parlare nella «durezza estrema del conversare con se stessi» di questo viaggio interiore nelle infinite possibilità del sentiero, eliminando i paletti e i divieti, significa penetrare il mandala della vita con una coscienza e autocoscienza illimitate. È certo un morire a sé stesse/i o per lo meno al simulacro a cui le coordinate terrestri ci hanno piegati.

 

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Il libro viene fornito con una cartolina d’artista di Donatella Franchi sulle donne straniere che fanno un lavoro di cura. Parallelamente al lavoro visivo, Franchi svolge un’attività di ricerca sui cambiamenti che il femminismo ha portato nel mondo e nel pensiero dell’arte contemporanea.

 

 

 

 

Gabriella Musetti

Un buon uso della vita

Samuele editore, 2021

  1. 87, euro 12,00