Un genio e tre Madonne

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Le Madonne fiorentine di Raffaello, sintesi perfetta tra armonia e vigore volumetrico

di Nadia Danelon

La fase fiorentina della carriera di Raffaello da Urbino (1483-1520) è esemplificata da tre raffigurazioni mariane, soavemente armoniose e influenzate dalle caratteristiche stilistiche presenti nelle opere degli altri due grandi artisti di quel periodo: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti.

Questi capolavori, concepiti nel corso di pochi anni (1505-07), hanno preso strade differenti e oggi si possono ammirare nelle sale di tre prestigiosi musei europei: la Galleria degli Uffizi di Firenze, il Kunsthistorisches Museum di Vienna e il Museo del Louvre di Parigi. Il soggetto delle tre opere è sempre lo stesso: la Madonna col Bambino e san Giovannino. Tuttavia i tre capolavori presentano delle caratteristiche differenti, iconografiche e compositive, che li rendono unici e contribuiscono a identificarli come precise tappe nell’evoluzione pittorica di Raffaello. Questa (ideale) triade di capolavori è significativa dal punto di vista dei simboli, dei gesti e delle espressioni: prefigurazioni di un futuro già segnato e ancora più evidente nello sguardo apprensivo e amorevole di Maria, consapevole del doloroso destino del Bambino.

La più antica è quella degli Uffizi: commissionata in occasione del matrimonio del mercante della lana Lorenzo Nasi con Sandra Canigiani, esponenti di due tra le famiglie più note nella Firenze del tempo per l’attività nei settori del commercio e della finanza. Questi committenti illustri, ovvero i componenti di alcune tra le più importanti famiglie fiorentine dell’epoca, contraddistinguono l’attività di Raffaello in città: non a caso, la seconda tra le Madonne prese in analisi è stata realizzata per Taddeo Taddei. Circa quarant’anni dopo la sua realizzazione, il dipinto ora agli Uffizi viene pesantemente danneggiato dal crollo di casa Nasi, devastata dallo smottamento di costa San Giorgio. Questo tragico evento ha luogo il 12 novembre 1547: l’opera viene successivamente restaurata da Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561), che con grande abilità ricompone i 17 frammenti del capolavoro di Raffaello. Le cicatrici della sciagura sono rimaste particolarmente evidenti sulla superficie della tavola fino al restauro del 2008. Nel 1666 viene documentata presso le collezioni del cardinale Carlo de’ Medici. Il capolavoro approda agli Uffizi nel 1704, anno in cui viene esposto nella tribuna. La raffigurazione mariana realizzata per Lorenzo Nasi è nota con il titolo di Madonna del cardellino: l’uccellino, che il piccolo Giovanni Battista porge a Gesù bambino, secondo la tradizione è una prefigurazione della Passione perché macchiato dal sangue del Cristo crocefisso. Come è stato evidenziato, le Madonne fiorentine di Raffaello costituiscono una sintesi tra le indagini stilistiche contrapposte di Leonardo e Michelangelo: come ha scritto Giulio Carlo Argan, la Madonna del cardellino combina insieme la composizione espansa del primo e il blocco compositivo del secondo. Nell’opera degli Uffizi e in quella del Kunsthistorisches di Vienna il volto e il busto di Maria emergono stagliandosi contro il cielo: parlando della Madonna del cardellino, Adolfo Venturi (1926), descrive questo scorcio azzurro paragonandolo ad un vero e proprio nimbo per la testa della Vergine.

Raffaello dipinge la tavola per Lorenzo Nasi nello stesso periodo, il biennio 1505-1506, in cui lavora all’analoga raffigurazione mariana ora conservata a Vienna: si tratta della Madonna del prato, detta anche del Belvedere per via della lunga esposizione nell’omonimo palazzo viennese. L’opera è caratterizzata da infiniti significati simbolici: a partire dalla figura della Vergine seduta sul prato, simbolo di umiltà. Nessuna specie botanica tra quelle raffigurate nell’ambito di questo dipinto è scelta in modo casuale, così come viene specificato da Creshaw (2010): troviamo papaveri, fragole e margherite che rispettivamente simboleggiano la morte di Cristo, la fertilità e l’innocenza. Si tratta della già ricordata Madonna realizzata da Raffaello per il fiorentino Taddeo Taddei: Vasari la ricorda come ancora presente nell’ambito della stessa famiglia e nel 1681 il capolavoro entra a far parte delle collezioni dell’arciduca Ferdinando II del Tirolo. Infine, nel 1773 la Madonna del Belvedere entra a far parte delle collezioni imperiali viennesi. La composizione piramidale, memore del cartone per la sant’Anna di Leonardo, unisce con eleganza i personaggi raffigurati: la Vergine sorveglia con sguardo amorevole i due bambini, Gesù si avvicina con delicatezza alla croce astile che gli porge san Giovannino, allo stesso tempo simbolo della Passione del primo e attributo identificativo del secondo.

Dal punto di vista cronologico, l’ultima tra le raffigurazioni mariane prese in esame è quella del Louvre, nota con l’appellativo di Belle Jardinière (Bella Giardiniera). Questo capolavoro è oggetto di un grande dibattito identificativo: gran parte degli studiosi la identifica infatti con una Madonna citata dal Vasari come opera di Raffaello, rimasta incompiuta e completata da Ridolfo del Ghirlandaio inserendo “un panno azzurro che vi mancava”. Secondo questa scuola di pensiero, la Belle Jardinière deve essere considerata come la tavola commissionata dal nobile senese Filippo Sergardi, chierico di camera di Leone X. Tuttavia, studi piuttosto recenti hanno confermato l’omogeneità stilistica dell’intera opera: viene così a cadere ogni tentativo finalizzato all’identificazione del capolavoro. La Madonna, giunta in Francia all’epoca di Francesco I ed entrata a far parte della collezione del Louvre nel 1783, è stata firmata e datata da Raffaello. Sull’orlo del manto indossato dalla Vergine, al di sopra del piede si legge RAPHAELLO VRB.. In corrispondenza del gomito di Maria troviamo invece la data MDVII (interpretata da alcuni studiosi come 1508, a causa di alcuni frammenti dorati che sembrano formare un’altra “I”). Raffaello, nella composizione della Belle Jardinière, sembra essere più vicino allo stile di Michelangelo piuttosto che a quello di Leonardo: non persiste alcun tipo di artificio, ma piuttosto viene riscontrata una certa fermezza di volumi già tipica del Buonarroti.