Un manicomio tra parentesi

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La panchina di Peppe Dell’Acqua e Massimo Cirri è diventata un libro

di Walter Chiereghin

 

Franco Però, direttore artistico del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia in una delle quattro prefazioni a (tra parentesi). La vera storia di un’impensabile liberazione, ricostruisce la vera storia del successo di uno spettacolo teatrale che il teatro da lui diretto si era posto come ineludibile impegno culturale e civile nell’occasione del quarantesimo anno della promulgazione della cosiddetta legge Basaglia. L’impegno si era manifestato come pressante in conseguenza della valutazione secondo la quale molti, nelle generazioni più giovani, dispongono probabilmente di un’idea lacunosa e imprecisa di cosa si fosse concretizzato a Trieste negli anni che precedettero quell’evento. Però, che aveva avuto più volte occasioni d’incontro con Dell’Acqua, ritenne opportuno rivolgersi a lui per raccogliere le idee, dal momento che lo psichiatra, arruolato da Basaglia nell’equipe del manicomio di San Giovanni prima ancora che quel ragazzone salernitano avesse conseguito la laurea, poteva costituire più di qualunque altro la “persona informata dei fatti” che avrebbe validamente dato un contributo all’ideazione dello spettacolo.

Franco Però si rese conto tuttavia ben presto che le appassionate ricostruzioni di Dell’Acqua non avrebbero potuto relegarlo al mero ruolo di consulente: doveva quindi giocare d’azzardo, chiedendo al medico di calcare personalmente il palcoscenico, con tutti i rischi che la cosa implicava, poiché si trattava non già di organizzare una conferenza, ma di confezionare un autentico spettacolo, con repliche per diverse serate, persino con l’organizzazione di un tournée. Per di più, il direttore dello Stabile pare soffra di una sorta di idiosincrasia per i monologhi e quindi, avendo saputo di un’amicizia dello psichiatra con Massimo Cirri, conduttore radiofonico di successo e inoltre autore teatrale, lo propose come interlocutore dello psichiatra e la cosa cominciò ad assumere concretezza.

A completare il quadro e a fare di quell’idea uno spettacolo che funzionasse anche in quanto tale sembrò naturale identificare in Erika Rossi (finalmente una triestina DOC), regista del film documentario La città che cura, colei che, come sostiene Però, sarebbe stata «in grado di dare sostanza scenica a tutto questo».

Alla fine (ovvero fin dall’inizio) tutto si compose in uno spettacolo vero e proprio: una scenografia ridotta all’essenzialità di una panchina sulla quale sedevano i due attori che mettevano in scena un’intervista che assumeva le sembianze di una pacata chiacchierata tra amici, condotta sul filo di un’esposizione puntuale, talvolta rievocativa, spesso luccicante d’ironia, che a tratti si inspessiva in commozione, nella narrazione del protagonista che a stento riusciva a trattenere la sua emotività nel rievocare fatti e soprattutto storie di persone, a loro volta protagoniste di una storia di liberazione, di un insperato riemergere a una vita degna di essere vissuta, dopo anni o decenni di privazione dei più elementari diritti nello spazio di reclusione in cui la società, la legge, una psichiatria indifferente alla dignità del paziente le aveva relegate.

Il minimalismo della scenografia è compensato, oltre che dalla pregnanza del dialogo, anche da una serie di immagini proiettate sullo sfondo. Sono immagini rubate agli spettatori, volti di noi ripresi in diretta o di altri come noi seduti in platea, chiamati, volenti o nolenti, a interpretare a nostra volta un ruolo nello spettacolo, come racconta Erika Rossi: «Se quello che vogliamo raccontare ci riguarda tutti, se questa storia ha cambiato le nostre vite, se il teatro è presenza, allora il pubblico dev’essere parte dello spettacolo. In tal modo la distanza tra follia e normalità verrà accorciata e potremo così guardare l’altro – colui che ci siede a fianco – da vicino, da molto vicino. E da vicino nessuno è normale… ».

Insperato il successo della manifestazione: oltre cinquanta repliche, più di cinquemila spettatori, a Trieste, naturalmente, ma anche a Milano, a Torino, a Ferrara, a Udine, a Codroipo, a Cervignano, a Modena, a Forlì. E speriamo non sia finita qui.

Ora quello spettacolo è diventato un libro, edito dall’Archivio critico della salute mentale, nella Collana 180, diretta da Dell’Acqua con la consulenza di Pier Aldo Rovatti. Un’occasione importante per conoscere la genesi dello spettacolo, ma soprattutto per ripercorrere la storia (verrebbe da dire l’epopea) della riforma basagliana dalla viva voce di un protagonista di quelle vicende: un’autentica rivoluzione. L’abbattimento del regime manicomiale che sembrava, fino all’arrivo del giovane psichiatra diventato direttore a Gorizia, il 16 novembre 1961, l’unica soluzione per quanti presentavano problemi di natura psichica. Un’umanità dolente e desolata, cui era negata persino l’identità («i nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non potevano più abitare quel luogo», p. 37). Erano, all’ospedale psichiatrico di Gorizia, seicentocinquanta internati, uomini e donne «diventati invisibili», come del resto erano, a decine di migliaia, altri disgraziati in tutto il Paese, fatti salvi, parzialmente, i privilegiati che potevano permettersi il ricovero in strutture private meno aggressive nei confronti dei pazienti.

Gorizia fu l’inizio, un’esperienza che fece il giovane direttore consapevole che ci sarebbero volute alcune altre cose per dar corpo al rivolgimento che aveva in animo di apportare: una convinta adesione ai suoi progetti da parte dei responsabili politici da cui dipendevano le strutture e un equipe di giovani medici che non fossero inveterati negli usi e negli abusi di una condizione professionale frustrante e remissiva. A Trieste, alcuni anni più tardi, nell’agosto del 1971, ottenne entrambe queste cose, con il convinto appoggio di un giovane presidente della Provincia, Michele Zanetti, e con la possibilità di dotarsi di un personale medico che fosse disponibile a correre i rischi di quella sua lotta di liberazione, e tra questi un giovanissimo neolaureato all’Università di Napoli, Peppe Dell’Acqua.

è appena il prologo. Si può dire che il racconto di Dell’Acqua comincia da qui, dall’esperienza diretta e dallo spaesamento di un giovane medico catapultato in una città che fino a pochi mesi prima non sapeva nemmeno dove precisamente si trovasse, in un ambiente ospedaliero dove bisognava iniziare col togliere le reti dai letti e gli altri strumenti di contenzione, qualificare il personale infermieristico il cui unico requisito per l’assunzione era il possesso di una “sana e robusta costituzione fisica”, il reperimento di risorse e di adesioni all’esterno, l’antagonismo di una parte rilevante della città e delle forze politiche che ne reggevano le sorti, la narrazione ostile che delle vicende psichiatriche faceva Il Piccolo sotto la direzione di Chino Alessi. Ma tutto ciò aveva come contropartita il premiante rapporto con i “matti”, l’umanità che traboccava da insperate libertà che via via si venivano consolidando, le barriere abbattute e la sensazione di essere partecipi di un evento di portata epocale, che andava lentamente a prodursi nelle coscienze, nella pratica terapeutica e nella legislazione non soltanto italiana.

Per chi ha avuto modo di vedere lo spettacolo, un libro da leggere e da conservare, per gli altri lo stesso, a maggior ragione.

 

 

Copertina:

 

Peppe Dell’Acqua

Massimo Cirri Erika Rossi

(tra parentesi). La vera storia di

un’impensabile liberazione

Edizioni alpha beta Verlag

Merano 2019

  1. 144, euro 12,00