UN MESE AL CINEMA: APRILE 2017

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Primavera. La Primavera per eccellenza è quella di Praga e Gli amori di una bionda (Miloš Forman, Cecoslovacchia, 1965) ne fu l’anticipatore: fresco come allora, è riproposto oggi per il ciclo “Il cinema ritrovato (al cinema)”. È un’iniziativa della Cineteca di Bologna che ripropone importanti film del passato, restaurati e restituiti alla nostra emozione nelle sale.

La proposta di aprile è il film che ha fatto conoscere al pubblico occidentale la nouvelle vague cecoslovacca. Ironico, con un mix di attori professionisti e dilettanti tipico di Forman, irride il perbenismo piccolo borghese, non diverso nella Cecoslovacchia comunista che nel resto d’Europa. Ispirato a una vicenda conosciuta per caso da Forman, all’epoca fece scandalo: lo vediamo oggi con la malinconia dovuta al testimone di un tempo e un mondo scivolati nelle nebbie del passato.

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Il film del mese è per me L’altro volto della speranza (Aki Kaurismaki, Finlandia, 2017).La trama è semplice ma ricca di valori: un commesso viaggiatore di Helsinki, Wilkström, fallito il proprio matrimonio, lascia moglie e lavoro e, grazie a una vincita al gioco, rileva uno scalcinato ristorante per rilanciarlo; intanto incontra e soccorre un profugo siriano ma non riesce a proteggerlo dall’odio xenofobo.

Khaled, il rifugiato, quando arriva con una nave porta-carbone è coperto di polvere nera. Se ne libererà con una doccia a gettone, ma non potrà fare lo stesso coll pregiudizio razzista. È questa la tematica del film, evidenziata da Khaled con la citazione del celebre monologo sulla persecuzione degli Ebrei da Il Mercante di Venezia.

L’altro volto della speranza è un film con poco dialogo, ma con alcune battute chiave. Khaled si dice un uomo senza importanza se non portare a termine la sua missione, ritrovando l’unica sorella, perduta lungo la via dell’esilio. L’amico iracheno si dichiara ormai inutile, perché non riesce a dare gioia a nessuno. Il valore fondamentale per i fuoriusciti protagonisti del film è l’altruismo, che dà speranza nel futuro e amore per la vita. Si confrontano con gli europei, i finlandesi di Kaurismaki, apparentemente chiusi e freddi; eppure disponibili.

L’altro volto della speranza è un film statico, ma costruito su due movimenti fondamentali: il viaggio lungo e terribile degli esuli per l’Europa, e il piccolo ma germinale gesto di rifiuto dell’egoismo di cui devono esser capaci gli europei per accoglierli. Si incontra chi ha bisogno della nostra solidarietà solo fuori, sulle strade dei quartieri bassi, se si è disposti a mettersi in discussione, a lasciare la propria zona di comfort e scavalcare il confine imposto dal conformismo.

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Il cinema come sguardo sul margine: lo è anche Paterson , l’ultimo film di Jarmusch, unito a Kaurismaki da una forte consonanza. Speriamo non smettano di fare un cinema così personale e attento alle periferie del nostro mondo: periferie geografiche, economiche, sociali, etiche, artistiche.

Il buono e il bello si nascondono dunque nel marginale: la Paterson di Jarmusch è una città del New Jersey, un posto reale di un’America minore, ma anche un simbolo della poesia che va trovata nelle cose di tutti i giorni. La Helsinki di Kaurismaki è suburbana, sporca e notturna: qui l’apparire di Khaled, piccolo siriano indifeso, fa emergere la solidarietà che non ti aspetti tra gli ultimi e gli sconfitti.

I perdenti sono da sempre i protagonisti dei film di Kaurismaki (pensiamo a Leningrad Cowboys Go America, La fiammiferaia, Miracolo a Le Havre), angeli caduti che nascondono ali ingombranti, aggirandosi tra opprimenti palazzoni popolari e tra scenografie che ricordano i quadri della solitudine urbana di Hopper.

Le scelte registiche; il rifiuto di ogni naturalismo, nell’ambientazione, nella luce, nella recitazione; i rarefatti movimenti di macchina; l’assenza di primi piani, tutto risponde alla stessa esigenza di moralità e semplicità che ispira le scelte dei protagonisti del film.

Un country finlandese tra Neil Young e Johnny Cash risuona nella colonna sonora: è la musica delle strade e delle periferie. Capita che le canzoni ci sorprendano entrando in scena, quando ne viene inquadrato l’interprete, un musicista di strada o un gruppo in un locale, che diventano protagonisti di una sequenza.

L’epilogo è drammatico e non lascia spazio al miracolo. Che c’è di più grottesco per un siriano che essere scambiato per ebreo e perseguitato come Shylock? “Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?” L’ultima beffa del destino è la scellerata azione del razzista, che perseguita Khaled e confonde nel proprio pregiudizio tutti gli stranieri, arabi, orientali ed ebrei.

Khaled entra in scena nero di carbone e si lava per diventare bianco; Khaled, come Elie Wiesel, seppellisce Dio con i suoi affetti tra le rovine di Aleppo; Khaled esce di scena impallidendo ancora, finalmente in mezzo alla natura e alla luce, consolato dalla presenza di un cane, simbolo della solidarietà che si fa fratellanza, come la capra dal volto semita di Saba.

Un bel film d’autore quindi, ma non il migliore dell’autore: scrive Fofi su L’internazionale che «la dimostrazione non ha il dono della semplicità e della poesia ma appare a tratti sforzata».

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La sorpresa del mese è La vendetta di un uomo tranquillo (Raúl Arévalo, Spagna 2016). Buoni la regia alla Peckinpah; la sceneggiatura; la fotografia, sgranata e iper realistica, gli attori. La violenza è una condanna inevitabile, anche quando si intravede un’altra possibilità, una seconda volta, un’altra vita. Ma il destino, nel noir, è un peso che trascina al fondo.

Un elemento importante della tensione di questo film è il continuo cambiamento nella valutazione che facciamo dei personaggi. Qui tutti hanno segreti verso gli altri, non ce n’è uno che sappia tutto l’insieme delle circostanze, come lo spettatore, fino alla fine.

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La delusione del mese è Personal Shopper (Olivier Assayas, Francia 2016). Il film ha fatto gridare al capolavoro i critici e scendere un silenzio imbarazzato nelle sale, da cui scappa il pubblico, non per la paura.

Il film vìola l’ABC della narrazione, aprendo tante sotto-trame per non seguirne nessuna, annoiando molto e risultando irrisolto.

Il regista è a disagio nella pretenziosa riflessione sui nuovi media e non sfrutta a dovere la star Kristen Stewart.

 

 

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Il 26 aprile ci ha lasciato Jonathan Demme: un regista che ha fatto documentari musicali indimenticabili, come Stop making Sense sui Talking Heads, o Heart of Gold su Neil Young e film che sono stati grandi successi e assieme bei film, capaci di unire pubblico e critica. I più famosi e premiati sono Il silenzio degli innocenti e Philadelphia.

Vorrei ricordarlo per Qualcosa di travolgente (Something Wild), un film del 1986 che è una summa perfetta del suo cinema e degli anni ‘80. Il suo cinema, impegnato e a suo agio unendo generi diversi con originalità e ottenendo il massimo dagli attori, qui Jeff Daniels, yuppie in crisi, Ray Liotta al grande debutto e una splendida Melanie Griffith, all’apice della forma e della bellezza. Gli ‘80s, anni coloratissimi, femministi, divertiti e divertenti, ma percorsi da un fremito, una vertigine, un presentimento di un vuoto che arriva.

 

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Aprile finisce volgendo al brutto, la luce autunnale ci accompagna alla visione di Le donne e il desiderio (Tomasz Wasilewski, Polonia, Orso d’argento 2016): privo di colonna sonora musicale, ben scritto, con una sceneggiatura che incastra bene quattro storie al femminile, e fotografato meglio, con colori lividi soprattutto nelle inquadrature dei protagonisti, nudi e pallidi come fossero sul tavolo settorio.

L’ambientazione in un condominio ricorda il Decalogo di Kieslowski, ma manca sentimento. Non c’è empatia per i personaggi, osservati con occhio da entomologo, e tra i personaggi. Cerchiamo l’immagine mancante: la vecchina gobba, che fu correlativo oggettivo della compassione per il maestro polacco.

Anche il contesto storico e sociologico resta appena delineato. Con queste caratteristiche, il film provoca poca emozione nello spettatore.

 

Pierpaolo De Pazzi