UN OBIETTIVO SULLA STORIA

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Intervista a Ugo Borsatti

di Walter Chiereghin

Vado a trovare Ugo Borsatti nel suo storico negozio di via Gatteri: Foto Omnia, un piccolo locale che nel retrobottega ospita il suo ufficio e lo studio fotografico, e non posso non pensare ai suoi ottantanove anni, a quante immagini in quello spazio si sono materializzate sulla carta, a migliaia, in bianconero. La storia di Trieste dalla seconda metà del Novecento ad oggi, filtrata attraverso il suo gusto e la sua perizia di documentarista, onnipresente nei momenti che hanno contato nella vita della città.

 

Lei ha una lunga storia da raccontarmi, anzi due: quella sua personale, un po’ più lunga, e quella di lei fotografo, solo di poco più breve, che è la ragione per la quale sono qui. Vuole dirmi qualcosa di com’è cominciata la prima?

È cominciata nel 1927, quando sono nato, e a pochi passi da qui, dato che la mia famiglia abitava qui, dietro l’angolo, in Via Ginnastica. Mio padre era di origine istriana, mia madre invece veniva dal Friuli, ma sia io che mio fratello e mia sorella siamo nati qui, a Trieste: come la maggior parte degli abitanti possiamo dirci triestini, certo, ma da tempi relativamente recenti.

Cosa faceva di mestiere suo padre?

Era musicista, violinista per la precisione: è stato primo violino nell’orchestra del Teatro Verdi, ma suonava anche in altri contesti strumentali. La musica mi ha accompagnato per tutti gli anni in cui sono rimasto con i miei. Lui avrebbe voluto che mi dedicassi anch’io allo studio di uno strumento, ed ho anche tentato di farlo, ma non ne avevo, evidentemente, la stoffa e così ho pensato che fosse meglio cercarmi un’altra strada. Mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Commerciale, il “Da Vinci”, avviandomi a diventare geometra.

La sua frequentazione di quella scuola ha avuto però una drammatica interruzione, causata dalla guerra, vero?

Sì, e fu un’interruzione veramente drammatica. Nel settembre del 1944, il giorno 17 per la precisione, fui avviato dai tedeschi in Istria, a scavare trincee nei pressi di Fiume. Credo che fossimo avviati a quel lavoro coatto per tenerci sotto controllo ed evitare che alcuni di noi potessero unirsi ai partigiani. Cominciò così un periodo durissimo, probabilmente il più accidentato della mia vita, al quale tentai di sottrarmi attraverso la fuga, ma venni intercettato dai partigiani iugoslavi che mi deportarono a Delnice in Croazia in un campo di lavori forzati. Fu un periodo ancora più duro, connotato dalla fame, dal freddo, dalla paura di finire infoibato come accadde a molti dei miei compagni di prigionia, sia italiani che tedeschi. Mi riuscì miracolosamente di fuggire anche da lì, e fui di nuovo preso dai militari nazisti, conobbi anche il carcere, ma alla fine mi riuscì di tornare a casa.

Lei ha poi narrato in un libro questa sua esperienza…

Sì, mi sono avvalso, per scriverlo, del diario che avevo scrupolosamente redatto mentre si svolgevano i fatti, annotandoli quotidianamente. Ma ci sono voluti quasi cinquant’anni perché mi decidessi a riprendere in mano quello scritto per poterne fare un libro (Croazia 1944. Diario di guerra di un diciassettenne, Lint editoriale, Trieste 2001 ndr.), perché ogni volta che le riprendevo in mano, lavorare su quelle pagine era per me troppo doloroso.

Alla fine, comunque, le riuscì di tornarsene a casa, al termine di quella sua allucinata odissea.

Sì, ripresi gli studi, dopo quella drammatica “vacanza” e mi diplomai nell’estate del ’45. Come sa, a Trieste non erano finiti i guai assieme alla guerra e mi provai, per qualche tempo, a fare qualche lavoretto come geometra, ma la situazione era veramente dura, il lavoro era poco e presto mi dedicai più intensamente alla fotografia, facendone, a partire dal 1952, il mestiere che poi è stato quello della mia vita.

Ed è da qua che inizia la seconda storia, quella della sua vita da fotografo…

Per la verità, quella seconda storia nacque un po’ prima, nel ’43, pochi giorni dopo l’8 settembre, precisamente il 14, quando scattai le mie prime foto importanti con la macchina di mio fratello dalle finestre della nostra casa di Via Ginnastica riprendendo un gruppo di militari italiani prigionieri dei tedeschi che passavano lì sotto. Mia madre mi richiamava alla prudenza, ma mi ero reso conto che si trattava di un evento importante, che andava documentato visivamente.

Questa sua ansia di documentare è stata poi il leitmotiv che ha percorso, a partire dai primi anni Cinquanta, tutta la sua attività fotografica e foto-giornalistica successiva.

Certo, e c’era molto da fare, nel periodo dell’amministrazione del Governo Militare Alleato: la città viveva con ansia l’attesa, per niente certa, del suo ritorno all’Italia e io mi presi a documentare con le immagini quegli eventi di rilevanza storica, le manifestazioni di piazza, le esequie dei caduti, le partenze di coloro che scelsero la via dell’esilio, in America o in Australia, l’esodo degli istriani e infine le giornate del ricongiungimento della città all’Italia. Una storia che i giovani, nel resto del Paese soprattutto, conoscono appena. Proprio in questi giorni sono stato a Bologna per parlare agli studenti, con l’ausilio delle immagini, lo straordinario clima di quegli anni e di quegli eventi ed ho riscontrato in loro un partecipe interesse a questa storia che conoscono assai poco. Le mie immagini che riguardano quegli eventi sono state pubblicate in due volumi, Trieste 1953 e Trieste 1954 pubblicati entrambi dalla Lint a cura di Fabio Amodeo.

Quelle immagini costituiscono certo un nucleo forte della sua attività erano già il risultato del lavoro di un professionista, di una persona cioè che esercita la fotografia come un autentico lavoro?

Sicuramente sì: come le ho detto, quando ho rinunciato per scarsità di lavoro l’attività di geometra, ho intrapreso quella di fotografo professionale, lavorando soprattutto per i giornali. Il Gazzettino e il Messaggero Veneto, in primo luogo, ma anche come corrispondente di di varie testate ed agenzie, tra cui il Corriere della Sera, La Nazione e la “Rotofoto” di Fedele Toscani, padre di Oliviero. Non che fossi pagato molto, per il mio lavoro. I giornali locali mi davano all’epoca 500 lire per ogni foto pubblicata, ma deve considerare che per quella cifra dovevo andare sul posto che mi era indicato, tornare in laboratorio, sviluppare il rollino, scegliere le foto, stamparle e alla fine farle avere alla redazione: era un lavoro che, il più delle volte, implicava mezza giornata al minimo di impegno. Poi ricordo che capitava qualche eccezione: La Nazione, ad esempio, mi pagava 3.000 lire e quando arrivava un loro ordine potevo tirare un sospiro di sollievo.

Dove lavorava per le attività di sviluppo e stampa?

In un primo tempo in casa, dove avevo sottratto all’uso dei miei genitori una stanza che trasformai in camera oscura, poi aprii la mia ditta individuale, Foto Omnia, che aveva sede in via Ginnastica a partire dal 1952, e poi, dal 1961, in questa bottega dove siamo anche in questo momento, e qui, come vede, lavoro tuttora.

Oltre ai suoi storici reportage sulle vicende triestine negli anni del GMA, lei ha saputo cogliere anche gli aspetti più minuti della vita quotidiana, fornendo un’immagine sfaccettata della città e dei personaggi che passavano di qui o che stabilmente vi risiedevano, da Pertini alle “venderigole”, da una sfolgorante Claudia Cardinale (qui per la prima di Senilità) alle “mussolere” che in molti rimpiangiamo…

È naturale che sia così: la fotografia ha l’ambizione di rappresentare la vita e deve quindi mettere in evidenza il bene ed il male, lo straordinario e il quotidiano, dalla visita del Capo dello Stato agli incontri sportivi, alla pesca dei tonni. È quanto ho inteso fare con la mia attività di fotocronista, fissando per me e per quanti altri vorranno vedere le mie immagini attimi nella vita che, per le città come per le persone scorrono veloci con tutto il loro contenuto di gioia e di paura, di serenità e di raccapriccio.

Lei ha cominciato a lavorare con gloriose macchine a telemetro, le Contax, la Leica, senza esposimetro incorporato, per passare quindi alle reflex biottica, a quelle TTL, in 35 millimetri e nei formati più grandi, fino ad adoperare, immagino, le moderne reflex digitali. Ha nostalgie oppure apprezza l’evoluzione tecnologica?

La Leica è nata negli anni Venti, praticamente come me e ne ho messo il nome sulla copertina di un mio libro, che s’intitola appunto Leica e le altre: posso legittimamente quindi averne anche un po’ di nostalgia. Ma ho sempre apprezzato le innovazioni tecnologiche che semplificavano il mio lavoro e mi consentivano di conseguire risultati progressivamente sempre più convincenti. Ora il digitale, certo, rende del tutto diverso il lavoro del fotografo, riduce gli scarti tecnici, consente un accesso alla fotografia a masse sempre crescenti di persone, e non si può non apprezzarne gli effetti. Tuttavia, per dirne una, io non utilizzo Photoshop, e del digitale apprezzo molte opportunità che questo sistema offre, senza tuttavia allontanarmi troppo dalla tradizione. Del resto, quando per via elettronica aumento o diminuisco la luminosità di una foto compio un’azione che potevo anche fare in camera oscura, con risultati che non si discostavano molto da quelli che si possono ottenere, certo con minore impegno, davanti a un computer. E poi la gente non si rende conto del fatto che il digitale si degrada col tempo assai più che nel lavoro su pellicola: sembra fatto per una fotografia “mordi e fuggi” che non è una modalità che mi appartenga.

La maggior parte del suo lavoro, che costituisce un patrimonio storico e culturale di primario interesse, è – almeno in questo senso – messa al sicuro.

Sì, ritengo di sì. Gran parte del mio archivio (circa 350.000 negativi prodotti dal 1° settembre 1952 al 6 febbraio 1995, oltre ad alcuni del settembre 1943) è stato dichiarato di “interesse storico” dalla Sovrintendenza del Ministero dei Beni Culturali, prendendo il nome di “Archivio Storico Foto Omnia di Ugo Borsatti”. I negativi di tale archivio sono stati acquisiti (anche se non in esclusiva) dalla Fondazione CRTrieste e si trovano attualmente presso la Fototeca del Comune in Palazzo Gopcevich. Confido che ora esse siano, anche sotto l’aspetto della conservazione, in buone mani…

 

 

Le immagini in bianconero che corredano questo articolo sono conservate presso i Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste – Fototeca – Archivio Borsatti – Proprietà Fondazione CRTrieste

 

 

Ugo Borsatti con le macchine tradizionali

(foto di Giorgio Jerman)