UNA PESCHERIA ALLA RINFUSA

Una Pescheria alla rinfusa

Un grande contenitore d’arte che dell’arte si scorda spesso

di Roberto Curci

Cracking Art al Salone degli incanti

 

Un casinò. Anzi no: un campo da tennis coperto. O piuttosto un delfinario. E perché non un acquario formato maxi anziché quello formato mini fin qui esistente? Oppure un complesso sauna-terme-idromassaggio. O un albergo diurno per turisti di passaggio. O una “casa d’accoglienza per indigenti e profughi”. Eccetera eccetera eccetera.

Furono 495 i triestini che, nel 1996, formularono suggerimenti alquanto strampalati in risposta al referendum indetto dal Piccolo tra i suoi lettori sul miglior utilizzo possibile della non ancora conclusa operazione di restauro-ristrutturazione dell’ex Pescheria Grande, la “basilica in riva al mare” eretta da Giorgio Polli e aperta nel 1913. È bensì vero che altri 490 concordarono con quella che era la destinazione “ufficiale”, per cui la Fondazione CrTrieste stava facendo un costoso regalo alla municipalità: un grande polo cultural-espositivo, uno spazio di ampio respiro (allora mancante) per mostre d’arte moderna e contemporanea.

E così infine fu, almeno nelle buone intenzioni dei committenti e dei finanziatori. E tuttavia, essendoci – com’è noto – ben ampio margine tra il dire e il fare, il successivo percorso di quella straordinaria struttura non fu, e non è, dei più agevoli. Anzi. D’improvviso, a lavori compiuti e spazi finalmente disponibili, venne a mancare il combustibile necessario, anzi indispensabile: le idee, tante belle idee capaci di onorare e concretizzare il nuovo ruolo dell’ex Santa Maria del Guato.

“Centro espositivo d’arte moderna e contemporanea”, d’accordo. Una definizione, però, forse allo stesso tempo troppo vaga e troppo vincolante. Chi avrebbe deciso, di volta in volta, di anno in anno, in qual modo, con quali opere, con quali artisti (eccellenti, chiaramente. Di rinomanza mondiale) si sarebbero potuti privilegiare quei duemila metri cubi di libero spazio?

Al posto di un comitato scientifico, o comunque di un trust di addetti ai lavori, o perfino di un singolo curatore assai dotto e introdotto, ci pensarono in prima persona gli amministratori della pubblica cosa, alias i politici di turno seduti sulle giuste poltrone. Magari non di testa loro, magari affidandosi a consiglieri di loro gusto, o a dritte provenienti dall’una o dall’altra direzione, come casuali spifferi o refoli.

Casualità, difatti. Si cominciò così e così si continuò, con due certezze: non vi sarebbe stata una sensata programmazione pluriennale; non si sarebbe dato spazio (o uno spazio minimo) alla valorizzazione del territorio, delle sue risorse e di quelle delle aree geo-culturali contermini.

E poi, quella definizione…. “arte moderna e contemporanea”? Ma che vuol dire? Meglio cogliere fior da fiore, e magari fingere che anche un bestiario di plastica colorata o un assemblaggio di mattoncini Lego siano “arte moderna e contemporanea”. Del resto bastano a certificarlo certe società specializzate nel fornire il prodotto finito (Gruppo Arthemisia in primis, o Navigare Srl), o rivolgersi all’amico Vittorio Sgarbi, sempre pronto, sempre disponibile.

Ahi, ahi. Successe nel 2017, e finì con un videomessaggio sgarbiano sulla sua pagina Facebook: «Mi pento di aver portato la mostra della mia collezione a Trieste». A suo dire, l’esposizione di oltre 200 opere della collezione Cavallini-Sgarbi (dipinti, disegni e sculture da fine ’400 a metà ’900) non era stata sufficientemente valorizzata dalle istituzioni con un’adeguata campagna pubblicitaria.

Meglio andò nel 2019, ma solo per i più piccini, con il milione e passa di mattoncini assemblabili ammucchiati a comporre «città moderne e monumenti antichi per oltre cento metri quadrati di scenari Lego». Di questi mondi in miniatura si era invaghita la Genertel, che in quell’anno compiva 25 anni e voleva festeggiare. C’era di mezzo la solita Arthemisia e c’era pure, come progettista e realizzatore, RomaBrick cioè «uno dei LUG (Lego User Group) più antichi d’Europa». Sic.

Lego al Salone degli incanti

Meglio andò pure nel 2021, sempre per i fanciullini, con Cracking Art Incanto, ovvero «un’invasione di chiocciole colorate che hanno preso possesso del luogo con lo spirito leggero e favolistico di un gioco meraviglioso». Sì, avete capito e avrete pure visto: non solo le chiocciole, ma pure i conigli, i coccodrilli, gli elefanti, i pinguini, i lupi e le rane che in quell’estate si videro sparpagliati anche per strade e piazze di Trieste (Arthemisia, occorre dirlo?).

Si ribatterà che ci furono pure, in altri anni e di recente, Kounellis, Escher, Banksy e Lachapelle. Vero: mostre vagabonde, qui approdate talora dopo un già lungo peregrinare. Escher, in particolare, era già stato visto pressoché in tutt’Italia.

FRIDA KAHLO Il caos dentro

Impossibile infine dimenticare la fortunatissima mostra su Frida Kahlo del 2022 (già recensita su queste pagine nel n. 78 del marzo 2022, sotto il titolo Frida: abuso di un nome). Tanti visitatori, vista la fama dell’artista. Tanti, ma tanto spiazzati non solo dal costo del biglietto ma pure dalla scoperta che di Frida era in mostra un solo dipinto originale, assieme a 15 riproduzioni di suoi autoritratti «riprodotti con la sofisticata tecnologia modlight, che restituisce allo spettatore i dettagli della pittura a olio con impressionante realismo».

E già. Mostra multimediale e immersiva, anzi nella fattispecie “sensoriale”. Sottotitolo: Il caos dentro.

Appunto.