Vincent Peters a Milano

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Ricordo di una mostra del fotografo tedesco a Palazzo Reale

di Fabio Rinaldi

 

Era stata un’ottima occasione quella di scoprire la mostra di Vincent Peters nell’inverno scorso al Palazzo Reale di Milano.

Timeless time era il titolo della mostra che raccolse 90 scatti del fotografo tedesco classe ‘69. Christian Bale, Kim Basinger, Monica Bellucci, Vincent Cassel, Laetitia Casta, Cindy Crawford, Penelope Cruz, Cameron Diaz, Matt Dillon, Scarlett Johansson, John Malkovich, Charlize Theron, Emma Watson sono solo alcuni dei celebri nomi delle persone ritratte che si potevano incontrare in mostra, scattate fra il 2001 e il 2021. Potrebbe scappare un’ironica battuta: con personalità di questo calibro, chi non saprebbe realizzare un buono scatto? Ma non è così. Inoltrandosi nell’esposizione si rimaneva sempre più incantati per l’abilità nel saper pennellare con la luce i volti e i corpi delle persone, il coinvolgimento e l’intesa che Peters riesce a creare con il soggetto che dirige con maestria, nella scelta accurata e mai banale dell’ambientazione. Una ricerca che sembra sempre sposarsi con la posa del soggetto, non per nulla viene affiancato alla sua fotografia il termine neorealismo, secondo me molto appropriato, soprattutto per i lavori di regia che ho visto realizzati per campagne pubblicitarie svolte in Sicilia. Richiamano il fascino di altri tempi e sono loro stesse senza tempo. Il segreto è dovuto all’amore dell’autore per le fotografie di strada degli anni ’50 e ’60, come pure per i film italiani e francesi dell’epoca.

Sono immagini di grande formato in un bianco e nero che non lascia spazio a commenti e che ti avvolge in una fragile malinconia. Quello che stupisce, a dispetto degli anni in cui sono state realizzate, è che si tratti di lavori fatti su pellicola e sempre con la stessa macchina fotografica, una Mamiya RZ che lui usa da quando aveva 18 anni. È lui stesso a spiegare il perché non sia mai passato al digitale: «quando cambi il processo con cui qualcosa viene creato, cambi anche il risultato. Con la fotografia analogica, non vedo le mie immagini che dopo giorni, quindi si tratta di una mia intuizione nel momento in cui ho premuto il pulsante. Tu sbagli e perdi il controllo, e questa è una parte importante del risultato. Le immagini sono uno spazio nel tempo che è solo un ricordo per me, uno che vedrò in modo molto diverso in seguito, uno che diventa la sua stessa storia. Essere in grado di controllare immediatamente l’immagine è come registrare un video di una conversazione che si sta guardando contemporaneamente. L’improvvisazione e la disinvoltura sono perse e cercare di migliorare le tue parole cambierebbe sicuramente l’intera conversazione. Stiamo uccidendo i risultati con il miglioramento».

Sì la stampa non è analogica, ma vorrei ben vedere! Si tratta di formati alti più di un metro e mezzo.

Ma torniamo alle immagini, al perché viene associato al neorealismo. Ogni immagine racconta una storia che lui sapientemente ambienta e ancora più sapientemente modella con la luce, «solo una buona luce crea una buona immagine» dice. Utilizza per lo più quella continua o naturale, uso che appartiene molto al set cinematografico, ma permette anche un controllo più accurato della scena. La naturalezza e l’armonia dei gesti, il saper cogliere i lati personali e spesso vulnerabili dei soggetti poi fa il resto.

Vulnerabili perché per la maggior parte si tratta di nudi, sempre delicati, mai volgari, sempre con l’attenzione di coprire le parti più delicate, senza però forzare la naturalezza del gesto. Gesti e pose che troviamo nella storia dell’arte, specie in quella greco romana, come nella pittura del ’500. Dice: «non si trattava mai di mostrare le cose per come sono, ma piuttosto al fatto che la luce su di esse mi colpisca. Si è proprio la luce l’elemento pregnante delle sue fotografie e la base della sua ricerca compositiva».

Anche nei primi piani il coinvolgimento è totale, sembra che non ci siano segreti fra i due. Si tratta quindi di una grande capacità di saper portare a proprio agio le persone seducendole per entrare nel profondo del loro animo.

In tutta questa meraviglia un piccolo neo c’è stato in quell’esposizione per il resto memorabile: nell’allestimento alcune foto – che ricordo sono di grande formato – erano state posizionate una sopra l’altra. Secondo il mio personale punto di vista uccide lo sguardo, così in alto e in diagonale le prospettive sono distorte. Ma è un dettaglio.

Peters, nato a Bremen, a 20 anni si è trasferito a New York City per fare l’assistente fotografo, ritornato in Europa nel 1995 ha lavorato per varie gallerie d’arte e su progetti personali. Nel 1999 ha iniziato la sua carriera nell’agenzia di Giovanni Testino come fotografo di moda per i più grandi marchi internazionali.

 

Fabio Rinaldi

Vincent Peters

a Palazzo Reale

Milano, 2003