SPECIALE SG Virgilio Giotti e storie d’acqua

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di Claudio Grisancich

 

1.

Non abbiamo una foto che li mostri assieme in quegli anni; siamo alla fine dell’Ottocento, ad essere precisi nel 1898; dobbiamo far lavorare la nostra immaginazione per figurarceli. Lo sfondo, contro il quale immaginiamo di vederli fotografati, è quello di uno stabilimento balneare; cabine di legno e spogliatoi probabilmente verniciati di celeste, possiamo soltanto supporli, la foto è color seppia appena ammorbidita dalla luce estiva. Proprietario doveva essere un certo Amadi, in città il bagno era conosciuto con questo nome; si trovava ai piedi della collina di Servola, nello specchio di mare antistante la Fabbrica Vernici e Intonaci Sottomarini Gioachino Veneziani S.A., con annessa villa dove vivevano Italo Svevo, la giovane moglie Livia e l’inflessibile suocera Olga Moravia.

Nella foto che ci sforziamo di immaginare i nostri eroi ci guardano con un’afflitta pensosità che poco si addice allo sfondo; sono giovanissimi, due adolescenti; il più grande ha quindici anni, all’anagrafe fa di nome Umberto Poli; risulta più alto dei ragazzi della sua età, è magro, nella stagione della pubertà, e sua madre per rinvigorirlo gli fa prendere l’olio di fegato di merluzzo. L’altro è nato nel 1885, esattamente il 15 gennaio; ha già tredici anni e mezzo quell’estate; ha un nome importante, Virgilio – si adatterà bene al destino che lo attende – e un cognome tedesco, Schoenbeck.

Umberto è un buon nuotatore; non ha molti amici, preferisce stare per conto proprio a leggere, scrivere poesie e fantasticare; gli è compagna abituale la malinconia; per questo sta volentieri con Virgilio, anche lui melanconico, che parla poco e che da grande vuole diventare pittore.

“A me il mare piace tantissimo, ma non per navigarci sopra – così dice Umberto a Virgilio mentre si asciugano al sole dopo una nuotata.

“Mia madre vuole che trovi un lavoro, che guadagni dei soldi, che m’imbarchi da mozzo su una nave da carico che fa i porti dell’Adriatico. Lei, Virgilio, mi ci vede a lustrare gli ottoni e a sgrommare la tolda di una nave?”

Si danno del lei; si trattano da grandi; non significa nulla che siano ancora degli adolescenti: sono artisti, non così importanti da giustificare quel rispettoso lei, ma destinati a diventarlo quando Umberto Poli si farà chiamare Umberto Saba e Virgilio, sostituito il cognome tedesco con il veneto Gheotto della madre, si firmerà Giotti.

Virgilio non risponde all’amico, fissa lo specchio d’acqua e va con la memoria agli anni di quando, ragazzino, per mano a suo padre gli piaceva farsi portare sulle Rive, nel seno di mare protetto della Sacchetta, con il faro della Lanterna, bonario custode d’ogni sorta d’imbarcazioni.

“Vi sostano legni da pesca, trabaccoli e piroscafi da carico, velieri e navi da diporto, cutter e barchettine. V’è odore di ruggine, di vernice, di catrame, di salso, di pesce, di vino, di legna che brucia nelle cucine di bordo”.

Sì, il mare gli piace, con tutto quello che di vivo e colorato vi galleggia e, bambino, godeva farsi portare dove le barche, i velieri e le navi più grandi si costruivano, al cantiere, dove suo padre lavorava come disegnatore all’Arsenale del Lloyd; una passione, quella del disegno, che aveva contagiato anche lui, iscrittosi dopo le popolari alla sezione Capi d’Arte del’I.R. Scuola industriale.

“Vi si respira un’atmosfera particolare. Un misto di ferro, di carbone, di fuliggine, di ruggine, di salso. E di sole. Davanti ai fabbricati delle officine c’è un giardino di aiole deserte dove stanno ammontati a piramide i catenoni d’ormeggio e, sistemati simmetricamente nei punti centrali e agli angoli, gruppi di ancore e grosse eliche. Sono pezzi non più usati, né più usabili probabilmente, messi lì per ornamento: trofei, come lo sono i vecchi cannoni, che si vedono a lato ai portoni delle fortezze. Sì, trofei marinai!”.

Umberto sorride, gli piace l’immagine dei trofei marinai: “trofei marinai!”- ripete; e solleva il braccio verso il mare, come per agitarne uno, trionfalmente, stretto nel pugno.

 

 

 

2.

L’amore per il mare, il gusto di entrarci e di nuotare a Giotti rimase per tutta la vita, fino alla vecchiaia. Dopo la guerra, dal 1948 al 1956, a un anno prima della morte, si concedeva assieme alla nipote Vittorina – la Rina di alcune delle sue più commosse poesie – un breve soggiorno a Venezia. D’abitudine scendevano all’albergo Terminus, vicino alla ferrovia e mai mancavano, ogni volta, di fare una gita a Torcello: l’acqua aveva un odore particolare, d’erba e di fico selvatico come chiusa in un vecchio giardino; Giotti andava dai frati del convento e, rispettosamente, chiedeva di poter fare un bagno su una spiaggetta tranquilla e solitaria. Poche bracciate lente e, uscito dall’acqua, ancora bagnato toglieva con cura dalla tasca della giacca il borsino del tabacco, la pipa e prima di rivestirsi si godeva con una fumatina la calma del luogo; una leggera brezza increspava quella distesa d’acqua che lievemente sciabordava a riva; poche barche, spinte da un solo vogatore là davanti, alzavano a prua appena un ricciolo bianco di schiuma; una sorta di dolente sfinimento si apprendeva al paesaggio svuotandolo d’ogni energia, e Giotti si rivedeva bambino a guardare con tristezza il ritorno dei grandi vapori dai lontani porti dell’oriente.

“Annunziavano la loro entrata nel porto con un fischio cupo, stonato. Procedevano quasi sempre lenti; erano esausti. Portavano sullo scafo i segni delle traversie. Andavano a scaricare, e poi un vaporino piccolo ed energico li rimorchiava al cantiere”.

Il ricordo improvviso e il rinforzo della brezza lo facevano rabbrividire; svuotava allora, battendolo contro il tronco di un alberello, il fornello della pipa, si rivestiva e ritornava alla panchina dove l’attendeva la nipote.

“Perché sorridi? – gli chiedeva la giovane chiudendo il libro che nel frattempo si era messa a leggere.

“Pensavo alla nonna, a come le faccia ancora tanta paura l’acqua”.

La nipote sorrideva e, presa sottobraccio al nonno, avviandosi all’imbarcadero si faceva raccontare per l’ennesima volta l’episodio che aveva provocato quell’assurda paura. Il fatto risaliva a quando, ancora molto piccola in Russia a Mosca, dov’era nata, la Nina, bambina di forse sei anni, fosse attaccatissima alla balia – la gnagna; lo era più di quanto fosse legata alla madre; le cose stavano così. Adelaide Jaminski discendeva da una delle più antiche famiglie aristocratiche, che contava nell’albero genealogico una lunga serie di generali tutti devoti agli zar. Nel proprio DNA doveva aver ereditato qualche tratto di quelle tempre; donna volitiva, di grande forza morale e fisica, quelli di casa raccontavano, tra il rispettoso e l’inorridito, che dopo sposata fosse lei e non il marito a imbracciare il fucile per sparare ai lupi che d’inverno si avvicinavano pericolosamente alla loro dacia.

Michele Schekotoff, il marito, veniva da una famiglia borghese ed era un ingegnere specializzato nella costruzione di ponti; nel suo animo sensibile e delicato albergava la mitezza di certi personaggi cecoviani; in primavera aveva l’impegno di verificare la tenuta di quei manufatti sotto la pressione straordinaria delle masse d’acqua ingrossate dal disgelo. Restava lontano da casa per settimane e ne soffriva perché non poteva avere accanto la figlia che adorava e che lo ricambiava con altrettanto trasporto. Quel vuoto d’affetto nel cuore di Adelaide Jaminski si era ormai scavato da troppo tempo: nel 1888 aveva partorito due gemelli, un maschio, Nicola, e la Nina; il bambino morì che era ancora piccolo, la sua perdita le stravolse l’animo al punto da pensare che fosse colpa di Nina se era morto e da allora nutrì un astio immotivato nei suoi confronti.

Le ombre del tramonto avevano tinto l’acqua della laguna di macchie violacee e rossastre; il vaporetto sollevava onde lunghe, compatte, oleose; le voci dei passeggeri sottocoperta si erano zittite; i bambini, stanchi della giornata all’aperto, si erano addormentati in braccio ai genitori; Vittorina si era persa lontano con lo sguardo, s’era fatto buio, la laguna era di un color nero, pecioso; lievemente Virgilio le toccò il braccio: “L’hai ascoltata già tante volte questa storia, smetto, se vuoi?”; lei scosse la testa: “no, mi piace, specie quando è il momento della gnagna nel fiume”.

“La casa – e Giotti riprese il racconto – era vicina alla Moscova, il fiume che taglia in due la città; l’ingegner Schekotoff, sarà stato il 1893 o 1894, era in viaggio a sorvegliare la tenuta dei ponti, la nonna non ricorda bene: stava giocando vicino al fiume; Adelaide era in casa, chi doveva guardarla era l’amatissima gnagna, ma che aveva tante altre faccende domestiche cui badare; una delle tante dovette per qualche istante averla distratta e quando si voltò vide, con terrore, che Nina era caduta in acqua e che il fiume se la stava portando via. La nonna – e ne è passato di tempo! – ti dirà come ancora oggi abbia chiara nella mente la scena di quegli attimi; vide la gnagna venire di corsa là dov’era caduta, entrare in acqua senza esitazione e, mentre s’immergeva nel fiume, vide tutto il corredo di gonne e sottogonne bianche che portava lunghe fino a terra gonfiarsi nell’acqua come un enorme pallone; la nonna vi si aggrappò e, magicamente, si sentì sollevata in aria come portata in volo da quella candida mongolfiera che la depose sana e salva sul prato davanti alla casa, ma da allora non ha voluto più saperne né di nuotare né soltanto di bagnarsi i piedi stando in riva al mare”.

Il vaporetto dette uno scossone piuttosto violento attraccando a San Marco; le cime subito avvolte strette alle bitte dell’imbarcadero cigolarono penosamente; sbarcati in Riva degli Schiavoni, superato il ponte della Paglia, si avviarono attraverso la piazza San Marco verso le Mercerie, diretti a Rialto; volevano sbrigarsi per salire sul motoscafo della “diretta” che li avrebbe portati alla fermata della stazione, vicino al loro albergo. Giotti si appoggiava al braccio della nipote; le luci della piazza, dei caffè, dei negozi splendevano, sembrava di vivere nella magia di un prezioso carillon; un violino e un pianoforte dialogavano all’aperto per i clienti del caffè Quadri; il poeta rallentò il passo e si fermò ad ascoltare una melodia molto nota – pochi istanti soltanto; con una breve pressione delle dita sul braccio della nipote l’avvertì che potevano proseguire. Per un po’ rimase in silenzio poi, e negli occhi gli danzava il diavolino dell’arguzia: “non è stata un’esecuzione molto felice – disse – ma ce ne vuole per rovinare Ciaikowskij, povero Piotr! Non voleva ammettere la propria omosessualità e così, chissà per quale contorta idea, si sposò con un’allieva del conservatorio, sua fanatica ammiratrice: fu un disastro; poche settimane e se ne fuggì via orripilato, né poteva andare diversamente. Lo sapevi che con Ciaikowskij siamo stati, per così dire, parenti? Chiedilo alla nonna e ti dirà che la bisnonna Adelaide diceva di essere la prima cugina della Miliukova: Antonina Ivanovna Miljukova, proprio lei, la ragazza di quell’infelicissimo matrimonio; è il caso di dire che il mondo è proprio piccolo”.