Visioni di giustizia

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Intervista al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Trieste, Dario Grohmann

di Enrico Conte

 

Dottor Grohmann lei è entrato in magistratura nel 1979, un anno dopo la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro, e un anno prima della strage della stazione di Bologna, il 2 agosto del 1980, alle 10.25. Quali ricordi ha di quegli anni di giovane magistrato e, soprattutto, che clima si respirava all’interno dei palazzi di giustizia?

I ricordi che ho di quegli anni sono bellissimi perché ero immerso nella voglia di imparare il “mestiere di magistrato”, cioè la parte pratica che non ti insegnano sui libri. Ho avuto la fortuna di avere maestri eccezionali i cui insegnamenti mi sono serviti per tutta la durata della mia carriera. I tempi erano certamente difficili e si era consapevoli che vi era un attacco frontale alle Istituzioni. Io poi avevo finito il militare da poco e anche lì avevo sentito tutto il pericolo degli attacchi brigatisti.

Il clima però che si respirava nel palazzo di giustizia di Napoli, ove ho svolto il primo anno di tirocinio, nonostante le grandi difficoltà, era di fiducia nella consapevolezza che alla fine lo Stato di diritto avrebbe avuto la meglio. Giunto a Trieste nel settembre del 1980 tutti quei tragici episodi, compresa la strage di Bologna, erano sentiti come fatti sì preoccupanti ma lontani e un po’ ovattati.

Gli anni di piombo hanno segnato un periodo di grande fiducia nella magistratura, impegnata, con esiti vittoriosi, nella lotta al terrorismo e con figure di spicco – tra i tanti mi limito a ricordare, facendo torto a tantissimi altri uomini dello Stato non solo della magistratura, Emilio Alessandrini, Mario Amato, Guido Galli – che hanno perso la vita in attentati: a partire da quando è iniziato un clima di diffidenza se non di ostilità verso la magistratura? Era solo propaganda o c’era anche dell’altro?

Sono passati poco più di 40 anni ma era un altro mondo. Quei Magistrati, mi consenta la M maiuscola, erano veramente degli eroi della società. Non ho avuto il piacere di conoscerli, ero troppo giovane, ma ho avuto modo di ricevere tante testimonianze da persone a loro vicine e tutte sono state concordi nel sottolineare, oltre alla loro indiscussa preparazione, l’assoluta abnegazione al dovere, la difesa assoluta dei principi dello Stato di diritto, la totale mancanza di qualsiasi remora ad esporsi al rischio anche della loro vita. Nessuno aveva la scorta e va ricordato che a fronte di un lavoro che non aveva orari, lo stipendio allora del magistrato era miserrimo, infatti gli stipendi hanno iniziato ad essere adeguati all’inflazione solo con la legge 97 del 1979. Il clima è iniziato a cambiare verso la fine degli anni ’80 quando si è inasprito lo scontro con la politica ed è iniziata una capillare, continua ed incessante opera di delegittimazione alla quale la magistratura non ha saputo rispondere adeguatamente, arroccandosi sul corporativismo e coprendo qualsiasi inefficienza del sistema.

Il caso Enzo Tortora, partito con il clamoroso arresto in diretta televisiva del noto – e amato – presentatore televisivo il 17 giugno del 1983, è fatto che ha segnalato un altrettanto clamoroso errore giudiziario. La vicenda segna l’inizio di un rapporto problematico con una parte dell’opinione pubblica e del ceto politico. Cosa  rese  possibile, secondo lei, un errore così grave e che portò prima ad un referendum nel 1987 e poi alla legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati del 1988?

Anche se ho vissuto per poco tempo nell’ambiente giudiziario napoletano, posso dire che la lotta alla criminalità organizzata era molto dura. I clan colpivano quotidianamente con un numero elevato di omicidi ed i pubblici ministeri erano impegnati 24 ore su 24 in estenuanti interrogatori.

L’errore clamoroso è stato nel non comprendere il cambio della strategia camorristica che aveva indotto alcuni dei suoi membri a rilasciare false dichiarazioni accusatorie, le cosiddette “chiamate di correo”, con l’ulteriore corollario che i pubblici ministeri, impegnati nelle indagini, hanno ritenuto che più dichiarazioni coincidenti tra loro assurgessero al rango di piena prova. Va precisato che all’epoca non vi era tutta la normativa sui pentiti né vi erano i principi di diritto successivamente enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione. Certamente il processo Tortora ha segnato l’inizio della fine della fiducia dei cittadini nell’amministrazione giudiziaria.

Con gli anni ’90 il clima cambia, prima con “mani pulite”, che portò all’acclamazione dei magistrati inquirenti del pool di Milano, per tutti Antonio Di Pietro, con inchieste che, congiuntamente ad altri fattori, portarono alla fine della prima Repubblica e alla crisi irreversibile del sistema dei partiti. Ricordo un clima di tifo verso quegli inquirenti. Cosa  accadde poi?

Senza voler nulla togliere al grande lavoro svolto dal pool di “mani pulite” la mia sensazione è che quel sistema politico/affaristico era arrivato al capolinea da solo. Vede, nella corruzione, finché regge il patto corruttivo cioè ci guadagna sia il corrotto che il corruttore – nessuno parla, nessuno denuncia, è quasi impossibile portare avanti le indagini. In quel caso, a mio avviso, la politica aveva esagerato strangolando gli imprenditori che per pagare la mazzetta rischiavano il fallimento, oppure agivano con tale spregiudicatezza, certi dell’impunità, come per il caso Chiesa. Certo l’opera del pool milanese distrusse quella che ormai si indica come “prima Repubblica”, ma quell’onda lunga produsse, come c’era da aspettarsi, anche l’onda di ritorno, un ulteriore inasprimento dei rapporti con la politica e quindi ulteriori attacchi all’autonomia e voglia di vendetta e normalizzazione della magistratura.

Nel 1992 gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alle loro scorte e alla moglie di Falcone, Francesca Morvillo, morti per mano della  mafia, stragi che resero Palermo una città che richiamava immagini  più simili a quelle di Beirut in Libano, piuttosto che a quelle di una città del Mezzogiorno italiano: erano figure isolate, dallo Stato e dai suoi vertici istituzionali, o erano anche invisi ad alcuni, e non pochi, colleghi?

I fatti siciliani sono tutta un’altra storia. Giovanni Falcone era una mente brillante, un investigatore come ce ne sono pochi. Egli da piccolissimi indizi, come ad esempio un assegno, era capace di ricostruire un traffico di droga internazionale. Inoltre, era un gran signore, moralmente integerrimo, ma anche onesto nei confronti del soggetto indagato e, da quanto mi è stato riferito, per la grande stima che avevano nei suoi confronti gli inquisiti gli rivelavano fatti e circostanze, non dimostrabili, delle quali però lui teneva memoria per futuri sviluppi investigativi. Si pensi che all’epoca non vi erano i computer e quindi tutto era nella sua memoria. Certo, questa sua straordinaria capacità investigativa unita alla grande notorietà, lo rendeva inviso a molti colleghi gelosi ed invidiosi. Fu molto penalizzato nella sua aspettativa di carriera quando non lo nominarono a capo dell’Ufficio istruzione. Transitato al Ministero della Giustizia si adoperò per la creazione di una Procura nazionale che si occupasse dei crimini mafiosi ed era evidente che il nascente ufficio lo avrebbe visto come il principale candidato alla sua guida. È facile immaginare cosa avrebbe potuto fare con le sue capacità e con le informazioni che aveva acquisito negli anni. La Mafia non lo poteva permettere. Borsellino era una delle pochissime persone di cui si fidava e con il  quale si confidava. Eliminato il primo doveva essere eliminato anche il secondo: i mafiosi non potevano correre rischi, e Borsellino ne era perfettamente a conoscenza.

Certamente né loro né i loro più stretti collaboratori hanno ricevuto il dovuto sostegno delle Istituzioni, come le tante morti eccellenti del periodo, non solo dei magistrati, stanno a dimostrare.

Cosa rende un giudice particolarmente diverso da un funzionario pubblico? Quali sono le caratteristiche, personali e professionali, che lo devono distinguere dalle altre figure che, nello Stato o nelle sue articolazioni regionali e locali, hanno compiti di responsabilità?

Non vi è alcun dubbio che l’elemento fondamentale che rende il magistrato diverso da qualsiasi altro funzionario pubblico è “l’autonomia ed indipendenza” della magistratura sancita nell’art. 104 della Costituzione. Si badi bene che autonomia ed indipendenza sono garanzie che la Carta fondamentale assegna alla magistratura nell’interesse esclusivo dei cittadini, perché la legge può essere uguale per tutti e tutti possono essere uguali davanti alla legge solo se giudicati da un giudice sottratto a qualsivoglia condizionamento di poteri esterni. L’autonomia ed indipendenza dei giudici esclude qualsiasi vincolo gerarchico, nella decisione, mentre tutti i funzionari pubblici sono sottoposti a direttive gerarchiche alle quali si devono adeguare per evitare di incorrere in sanzioni disciplinari. Infine, anche la limitazione della responsabilità civile del giudice rende la sua azione più incisiva e pronta rispetto all’amministrazione. I magistrati, poi, dovrebbero avere una professionalità ed un rigore morale che li colloca al primo posto tra gli organi dello Stato. Si pensi che, per questa ragione, per legge, è vietato concedere – anche da parte del Capo dello Stato – onorificenze ai magistrati in servizio.

Il PNRR è stato paragonato al Piano Marshall del secondo dopoguerra, ma quest’ultimo, come ci ricorda Gianfranco Viesti, nel suo ultimo Centri e periferie, fu rivolto alle strutture industriali esistenti e da ricostruire. Il Recovery plan dedica invece molte risorse a investimenti strutturali e riforme, per esempio, tra le prime e più importati, quella sulla giustizia civile che, insieme a quella sulla PA, ha segnato il primissimo anno di attuazione del Piano. Adesso la riforma Cartabia entrerà in vigore con i primi del 2023.

Cosa non funziona, a suo avviso, nella giustizia civile? Gli uffici del processo, pieni di giovani neo laureati, previsti dal PNRR, stanno funzionando e saranno in grado di fronteggiare il problema della piaga della durata dei processi civili?

A fronte di una durata media europea di 237 giorni (così il Rapporto della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa, del 5 ottobre scorso, che colloca il sistema italiano agli ultimi posti) in Italia i giudizi civili di primo grado avevano, nel 2010, una durata media di 493 giorni e nel 2020 di 674 giorni, la più lenta del continente.

A mio avviso i notevoli investimenti del PNRR sul processo civile non sono sufficienti e potrebbero addirittura essere dannosi. Non mi riferisco tanto alla riforma del codice di procedura civile (ennesima riforma!), quanto alla massa di persone catapultate negli uffici della giudicante senza alcuna esperienza pratica. Creare l’ufficio del processo del giudice, non è la stessa cosa che creare l’ufficio del processo del giudice costituzionale. A mio avviso quello che traspare dalla riforma, e più mi preoccupa, è l’esclusiva attenzione – dovuta dal PNRR e dalle giustificazioni che dobbiamo dare in Europa – all’eliminazione dell’arretrato senza prevedere alcun controllo sulla qualità delle sentenze. In parole semplici appare, a mio avviso, di tutta evidenza che non interessa ad alcuno un controllo sulla qualità delle decisioni, l’importante è che il giudice elimini l’arretrato, che poi le sue decisioni siano scadenti o pessime va bene lo stesso ai fini del PNRR.

Vede, nel processo civile l’unico vero collo di bottiglia che rallenta tutto il sistema è la motivazione della sentenza che in Italia, a differenza di molti altri Paesi, come anche la Francia che ha un sistema giuridico molto simile al nostro, è  mostruosamente farraginosa e lunga. Il giudice, nella pratica, spesso per decidere una controversia impiega minuti o poche ore, mentre gli occorrono giorni per scrivere la motivazione della sentenza. Ma la motivazione della sentenza è un tabù  assolutamente intoccabile specie da parte della dottrina.

Il caso di Luca Palamara, il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati sotto processo per reati di abuso di ufficio e corruzione legati alle nomine per gli uffici giudiziari di vertice, rappresenta, forse, uno dei punti più bassi della crisi dell’istituzione magistratuale. Pensa che i rimedi che sono stati pensati per evitare il sistema delle correnti siano efficaci?

Certamente il nuovo sistema elettorale del C.S.M. ha ridotto l’impatto sulla sua composizione dell’appartenenza correntizia dei magistrati eletti. In futuro si vedrà in quale misura visto che il nuovo CSM non ha ancora iniziato ad operare. Va detto però, a mio avviso, che i problemi sono ben altri e, anche in questo caso, non sono minimamente toccati dalla riforma. Mi spiego. Non può lamentarsi il legislatore della mala gestio che il CSM fa delle nomine agli uffici direttivi o semi-direttivi dei magistrati se poi è lo stesso legislatore a delegare totalmente al CSM di stabilire i criteri. Con l’ultimo Testo Unico direttivi il CSM ha stabilito otto criteri di valutazione tutti totalmente discrezionali, che si possono gestire come si vuole, ma impongono, ovviamente, lunghissime motivazioni per giustificare le valutazioni comparative che di fatto allungano i tempi di decisione del Consiglio in modo abnorme. Non è ammissibile che posti direttivi restino scoperti addirittura più di un anno. Ovviamente più è lunga ed arzigogolata la motivazione più è facile che la stessa venga poi annullata dal TAR e dal Consiglio di Stato, come regolarmente avviene. Analogamente è accaduto per le valutazioni quadriennali di professionalità dei magistrati: la legge ha delegato in toto la determinazione dei criteri di valutazione al CSM, secondo i quali più del 99% dei magistrati risulta sempre idoneo. La qualcosa suscita notevole perplessità. Ora è vero che la Costituzione assegna al CSM il compito delle nomine e le valutazioni, ma ben potrebbe il legislatore indicare o pretendere che il CSM adotti, se non tutti almeno una parte di criteri obiettivi e verificabili per rendere le procedute più trasparenti e rapide.

Quando ha deciso di fare il magistrato cosa le è scattato internamente che l’ha spinta a studiare, prima Giurisprudenza e poi per un concorso che resta uno dei più difficili per lavorare nel settore pubblico?

L’idea di entrare in magistratura l’avevo fin da piccolo. Inoltre avevo vari parenti, specie da parte di madre, che erano magistrati e ricoprivano ruoli molto importanti, dei quali in famiglia si parlava spesso. La cultura della giurisdizione ed il concetto di “mettere la Giustizia al servizio del cittadino” mi è stata inculcata da sempre. Mi sono preparato per il concorso quasi come se per me fosse una strada obbligata.

Se dovesse rivolgersi a un giovane studente cosa direbbe per invogliarlo a diventare giudice?

Innanzitutto studiare tanto e per se stessi, non per il voto di laurea. Per fare bene il magistrato occorre per prima cosa essere molto preparati. Al contempo altra dote essenziale è l’umiltà, perché solo se si è sempre insicuri ed umili non si commettono errori o se ne commettono pochi. Infine, capire che fare il magistrato non è una funzione che deve dare potere a chi la esercita, ma è un servizio, quale organo dello Stato, che si svolge nell’esclusivo interesse dei cittadini.

 

 

Giovanni Falcone e

Paolo Borsellino

foto di Tony Gentile

(particolare)