Voghera in fuga

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C’è una disperazione di fondo in questo intellettuale-testimone che ha molto contribuito a costruire la “narrazione” della triestinità con le sue radicali, un po’ snobistiche inettitudini

di Gabriella Ziani

 

A volte ritornano, con la voce, il pensiero e le parole che hanno lasciato per noi sulla carta. E, a volte, è buona cosa. I tempi cambiano. Letti con l’occhio di oggi, li mettiamo alla prova. Chi torna adesso è Giorgio Voghera con il suo Quaderno d’Israele pubblicato in origine da Scheiwiller nel 1967, l’anno della Guerra dei sei giorni che cambiò il profilo di quell’area di Medioriente. Passò quasi inosservato, come ci spiega Alberto Cavaglion, tra i più colti esegeti della cultura triestina ed ebraica, nella sua interessante e pregnante introduzione critica alla nuova edizione del libro per le Edizioni di Storia e letteratura. Comunque la si pensi (sull’ebraismo, sul sionismo, sullo Stato d’Israele, e su Voghera stesso) è un libro che a distanza di oltre cinquant’anni risulta ancora, anzi più ancora, dirompente per molti motivi.

Nato a Trieste sotto l’Austria, nel 1908, studi a Trieste e a Graz, impiegato giovanissimo alle assicurazioni Ras, all’annuncio delle leggi razziali nel 1938 Voghera è subito spaventato, teme il peggio (che infatti verrà) e si dà subito da fare per espatriare in Palestina, dove arriva nel 1939 sotto l’egida inglese, e dove rimarrà fino al 1948 lavorando duramente in un kibbutz, esperienza che appunto è narrata nei ventuno brevi e intensi capitoli del Quaderno d’Israele, pubblicato ben vent’anni dopo la sua stesura, anche per ragioni politiche – come lo stesso Voghera spiega nelle Note finali: «Temevo che alcune mie frasi, avulse dal loro contesto, potessero venir citate dalla propaganda antisemita e antisionista». Nel momento in cui scrive l’avvertenza Voghera afferma: «Sono profondamente convinto che allo stato attuale delle cose bisogna augurarsi che lo Stato di Israele sopravviva, e che bisogna appoggiarlo». Ma ben altro aveva messo sulla carta nel Quaderno. Dove si professava cosmopolita per cultura e per natura, e nella trasmigrazione degli ebrei in Palestina vedeva solo la costrizione del tragico momento storico: «Io vedo il sionismo solo come una dura necessità, imposta dalla stoltezza e dalla crudeltà umana. Mi dico e ridico che se non fossi qui potrei essere in un campo di concentramento hitleriano, e soffrirei mille volte di più, con l’unica  prospettiva  dell’immancabile eliminazione».

Ma è la stessa ipotesi della formazione di uno Stato d’Israele che gli sembra un doloroso, sbagliato ripiego, e la reprimenda, durissima, è soprattutto contro gli ebrei italiani, tacciati di camaleontismo, nazionalismo e opportunismo: «C’è poi – scriveva Voghera nel fiammante, drastico capitolo undicesimo – l’affermazione che la Terra d’Israele è la sola nella quale il popolo ebraico si possa sviluppare secondo il suo genio, perché in quella esso si è formato. Ma gli ebrei […] sono diventati quali sono proprio attraverso due millenni di dispersione fra i popoli. Volerli riportare allo stato in cui si trovavano prima della diaspora (ammesso pure che ciò fosse possibile) sarebbe un rompere con la tradizione, non un conservarla. E se poi è vero che è proprio l’ambiente fisico ad avere la massima importanza nell’armonico sviluppo di un popolo; se è vero che l’ambiente fisico congeniale ad un popolo è quello in cui hanno vissuto a lungo i suoi antenati, allora non si vede perché per gli ebrei dovrebbero contare più i dieci secoli di Palestina che i successivi venti secoli della diaspora […]. E se anche, per colpa degli altri, nessuna parte del mondo – continuava – può essere per me patria; se anche la libertà per me si riduce a pressoché nulla: non per questo vorrò dirmi soddisfatto di una patria particolare e della libertà di assimilarmi ad un determinato gregge».

La citazione è lunga, ma  queste parole forti contengono la summa politica e il senso profondo del libro, che si fa ancora più “scandaloso” se pensiamo ai tempi in cui queste parole furono scritte. E se ri-leggiamo l’anatema contro gli ebrei italiani, tacciati di conformismo religioso e di nazionalismo imbevuto di propaganda mussoliniana. O l’ardita paradossale lode a Hitler: «Però bisogna ammettere che una cosa Hitler ha fatto per gli ebrei, almeno per quelli tedeschi: li ha salvati dalla vergogna di diventare nazional-socialisti come quasi tutti i loro concittadini ‘ariani’». Questo raziocinare senza sconti porta ancora più avanti gli anatemi di Voghera, fino potremmo dire a un punto estremo, quando si augura che gli ebrei, magari sbalorditi dagli «immensi successi di un pazzo criminale» non vengano tentati di «fare proprie alcune delle tendenze che hanno formato il fondamento della sua spietata, ottusa e inutile forza», come il nazionalismo, lo spregio per la vita umana, il militarismo, la «divinizzazione dei capi e la degradazione dei gregari». E non basta: «Ma io mi rifiuto di credere che solo una specie di fascismo ebraico possa salvarci […] anche se ci sono dei capi politici che sembrano aver studiato a fondo i sistemi che hanno permesso a Hitler ed a Mussolini di ottenere tanti successi». Parallelismi e somiglianze che, denunciate da un intellettuale ebreo mentre è in corso lo sterminio degli ebrei, danno un brivido oggi come ieri.

Quando è in Palestina a rompersi la schiena sui campi, a tirare carretti con l’asina, a fare da sentinella al campo nelle notti stellate ma pericolose, a barcollare per la stanchezza, il caldo e la mancanza perpetua di sonno e riposo, Voghera ha trent’anni. Ha lasciato a Trieste il tormentoso vagheggiamento per quella che sarà la Bianca de Il segreto, uscito da Einaudi nel 1961 e da lui tenacemente attribuito alla penna del padre Guido, insigne matematico e uomo di cultura, e anche nel kibbutz incontra giovani donne, così deliziosamente descritte, dalle quali lo allontana la sua timida paura di essere respinto, la consapevolezza di non essere mai stato capace di concludere un matrimonio, di essere “vecchio” anzitempo oltre che calvo come un vecchio, e di essere un ondivago perennemente (consapevolmente) in fuga, e ogni fuga è «una sconfitta»: da un primo impiego, dall’ufficio Ras, da Trieste, dall’Italia, da un campo di lavoro all’altro, infine anche dalla Palestina. I genitori emigrano dopo di lui, con difficoltà e qualche necessario maneggio per oltrepassare i limiti delle “quote” di emigrazione-immigrazione, organizzato proprio dal figlio che inutilmente aveva chiesto aiuto a quello che nel libro chiama Samuele, cui dedica un magnifico ritratto fra luci (poche) e ombre (parecchie), e che in realtà – come chiarito nell’introduzione – era il sionista Enzo Sereni. Madre e padre si fermeranno poi a Tel Aviv. E sempre all’aiuto del padre Voghera racconta di essersi affidato – («estremo tentativo di depistaggio psicologico nei confronti del lettore» lo definisce Cavaglion parlando di operazione «ai limiti dell’ingenuità infantile») per tradurre il Quaderno dall’originale versione in ebraico, fidandosi anche dei forti tagli imposti al testo.

Intanto il personaggio – e dunque l’autore, poiché coincidono – insiste a raccontarsi come un individuo penosamente debole, pauroso, traumatizzato, disorientato e incapace, perfino inutile nella sua proclamata carriera di inetto. Ma su questa sorta di penitenziale umiltà svetta per converso la lucida intelligenza, che impedisce fede e fiducia, e dal basso fa salire una rabbiosa invettiva verso ogni individuo o gruppo che aspiri al potere o peggio ancora lo detenga (lo si trovi in un ufficio o nei palazzi della politica mondiale). Ma poi, con la saggezza o con l’astuzia forse, quello stesso che tutto o quasi abbatte, poi tutto o quasi perdona, in nome della compassione, che è un sentimento alto, sottile, religioso al di là di ogni religione. Le invettive, però, restano, dure come pietre aguzze, anche se il racconto plana su un sogno, in cui lo stanco Voghera, ferito, accetta e ricambia l’abbraccio della diciassettenne che più lo ha toccato in profondità: «Mentre perdevo conoscenza, mi pareva che il mondo finisse dove finivano i nostri due corpi allacciati: ed il mondo era buono».

Voghera non smetterà di scrivere, e cioè di testimoniare, essendosi fra l’altro dichiarato anche inetto a opere di fantasia (Gli anni della psicanalisi, 1980; Nostra Signora morte, 1983; Carcere a Giaffa, 1985; mentre agli anni giovanili risale Il direttore generale, un’altra satira sui gironi del comando). Con questa indole, che egli stesso nel Quaderno definisce in un’occasione di «ebreo miserabile», non poteva Voghera che ridimensionare e compiangere anche il proprio ruolo di narratore, nel quale provava sempre più accentuata solitudine ritenendosi trascurato e ai margini. Scrive ancora Cavaglion: «Amava ripetere – scherzando ma non troppo – l’ipotesi di essere finito vittima di una famosa e famigerata A.M.R.I. (Associazione del mutuo reciproco incensamento)». Non facendone egli parte, «era ovvio che  gli toccasse in sorte l’indifferenza dei critici e l’ostilità dei grandi editori». Aveva frequentato Bazlen, Saba, Giotti, e tra questi esempi e la propria inclinazione caratteriale era giunto a posizioni di forte scetticismo e pessimismo anche sulla attività culturale, misurata in termini di gratuità e dissipazione.

Ma Voghera splende soprattutto in questa geometrica giustapposizione dei contrari. L’umiltà si apparenta al solitario orgoglio, la fuga è deprezzata ma perseguita, la critica più feroce si compensa con la pietà, e anche il Quaderno è un esempio di questo procedere per antinomie: ebrei italiani demonizzati, polacchi esaltati, animali pieni di sapienza e dolcezza (si vedano le magnifiche pagine sull’asina e sui passeri del kibbutz) e umani disdicevoli, i bambini più saggi degli adulti, la natura e i cieli stellati palestinesi subito in parallelo con quelli di Trieste, la debolezza fisica e tuttavia il lavoro estenuante, la reprimenda contro un futuro Stato per gli ebrei e subito il riconoscere che esso è probabilmente necessario. Lo scrivere, e l’attribuire i meriti al padre. Il desiderare la morte, e non potersela dare. C’è una disperazione di fondo in questo intellettuale-testimone che ha molto contribuito a costruire la “narrazione” della triestinità con le sue radicali, un po’ snobistiche inettitudini: le prime parole del Quaderno raccontano il desiderio di addormentarsi e non svegliarsi più, desiderio che però non si può tradurre in atto concreto, perché la morte «bisogna volerla, non solo desiderarla, bisogna prendersi la responsabilità di una decisione così definitiva e radicale. Io ho sempre l’impressione di non esserne capace».

 

Giorgio Voghera

Quaderno d’Israele

introduzione di

Alberto Cavaglion

Edizioni di Storia

e Letteratura, Roma 2021

  1. 160, euro 18,00