Trainspotting 2 e la crisi dei padri

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di Gianni Cimador

 

 

Impresa difficile fare il seguito di un film come Trainspotting che, negli anni ’90, fu oggetto di culto, avendo colto la cifra spirituale di un periodo, quasi un manifesto della generazione “No Future”, priva di prospettive e di spazi sociali e politici in cui esprimersi.

Trainspotting 2 narra un’altra stagione, è un altro film, non un seguito, è diverso da quanto ci aspettavamo, molto più complesso ed emozionante: Mark Renton, Spud, Sicky Boy e Begbie ormai quarantenni, i nodi irrisolti nel primo capitolo vengono al pettine, è il tempo di bilanci esistenziali. Se a vent’anni tutto era fluido e possibile, ora i margini si cristallizzano, il tempo è una condanna: la consapevolezza del crinale su cui si muovono i personaggi, del peso delle loro scelte o non scelte, sigla la fine di una giovinezza che diventa un’ossessione, un fantasma, perché in essa il Futuro era ancora un’opportunità, i giochi erano aperti. Nel film “occasione” e “tradimento” sono parole ricorrenti: la giovinezza, come la vita, è occasione, possibilità, ma anche sofferenza per ogni tradimento. Tutta la sofferenza di Trainspotting 2 deriva dal tradimento che ha segnato la fine delle illusioni, in particolare dell’amicizia: niente amici, ma solo “vittime”, solo la lotta biologica, la legge della sopraffazione. In tale senso, il film è tragico, corrisponde alla scoperta dell’ “arido vero” leopardiano, sebbene adotti, come il primo, il filtro dell’ironia, ma in forma più attenuata e con minori virate sul grottesco.

Anche il contesto sociale è cambiato, rendendo le persone più vulnerabili: siamo passati dalla “Cool Britain” di Blair al Brexit, dal benessere alla crisi, a nuove paure e incertezze.

Trainspotting 2 è un film sull’universo maschile, sul rapporto tra padri e figli, sull’incapacità dei maschi di accettare il passare del tempo. Il regista Boyle ha detto: “è il testosterone la vera tragedia, sarà pure legato all’istinto di supremazia, all’evoluzione, alla sopravvivenza, all’inseminazione; non nego il suo ruolo cruciale nel passato, ma nei tempi civilizzati procura disastri. T2 è pieno di figli insoddisfatti dei padri, le madri li hanno separati da questi padri per evitare che venissero su come loro”. Se per Sicky Boy e Mark lo stretto legame con la giovinezza diventa incapacità di generare e diventare adulti, nel caso di Spud e Begbie i figli sono migliori dei padri e si è aperto un baratro, una crisi di testimonianza e di trasmissione dell’esperienza: la vita gira a vuoto, l’immaginazione porta sempre al Passato, in una rappresentazione di sé in conflitto con i propri anni e il corpo reali, come dimostrano l’istinto suicida di Spud e l’impotenza di Begbie. Da questo punto di vista, è inevitabile una lettura psicanalitica: l’ “evaporazione del Padre” che per Lacan caratterizza l’età ipermoderna comporta una perdita di prospettiva esistenziale e mostra qui tutte le sue catastrofiche conseguenze.

La “bolla” in cui sono invischiati i protagonisti è quella in cui il “Nome del Padre” ha perso la funzione normativa, capace di regolare il rapporto tra Legge e Desiderio, e si è dissolto, con esso, ogni ideale e ogni fondamento etico: con l’assenza di limiti e di interdetti simbolici, si affermano la sregolazione pulsionale, un Es senza inconscio, la morte del desiderio, violenza, rifiuto dell’Altro, culto narcisistico dell’io, indifferenza cinica, pulsione di morte priva di argini. Trionfa come unico valore il consumo capitalista che trasforma tutto in merce: la droga è il simbolo di questo mondo orizzontale e anfetaminizzato, dei suoi rituali incontrollabili e distruttivi, dove l’abuso di stupefacenti crea l’illusione di colmare una mancanza intollerabile; è metafora di una società in perenne stato di eccitazione e di frenesia euforica, nella quale il soggetto si annulla attraverso il rafforzamento narcisistico, nell’estasi della prestazione e del godimento.

Al contempo, la droga diventa via di fuga dall’incubo efficientista di una working class concentrata su modelli di efficienza e virilità aggressiva, sulla produzione come unico fine: il principio di piacere ha la meglio su quello di realtà. I veri padri assenti spingono i figli a cercare la compensazione delle loro mancanze nelle droghe e nel consumo compulsivo, l’unica alternativa per placare l’odio verso se stessi, verso un vuoto di esperienza dove tutto è irreale, è una falsa rappresentazione: non si può dare ciò che non si ha, non si può diventare padri quando non ci sono stati dei modelli paterni che hanno trasmesso il desiderio di un’eredità. Il maschile non paterno è animale, mentre l’identità è una costruzione culturale, va trasmessa, insegnata, altrimenti prevale la forza cieca della ripetizione, della pulsione di morte.

La scomparsa dell’iniziazione e i bisogni di crescita insoddisfatti causano una nuova distruttività che presenta il conto a quarant’anni: la “sindrome di Lucignolo”, che induce a cercare nei pari un’alternativa al vuoto paterno, non porta alla crescita. I protagonisti navigano a vista come vent’anni prima, intrappolati nei riti e nei circoli viziosi della loro giovinezza. Paradossalmente, il tradimento diventa il passaggio necessario per intraprendere un cammino di scoperta di se stessi: è il tradimento nei confronti del mondo chiuso e autoreferenziale dei pari, ma anche il tradimento dei figli nei confronti dei padri e dei valori negativi che questi rappresentano, come avviene nel caso dei figli di Spud e Begbie. Servirsi del padre significa anche farne a meno, direbbe Recalcati: la donazione si accompagna all’interdizione. Il tradimento si trasforma in occasione: lo testimonia anche il riscatto di Spud attraverso la scrittura, con la quale rielabora la sua esperienza e raggiunge una sorta di catarsi, una nuova consapevolezza di sé e del senso del suo percorso. Spud è una controfigura di Irvine Welsh, l’autore da cui sono tratti i due film. Come Spud, anche gli altri sono costretti a fare i conti con se stessi e con l’irrealtà in cui vivono: solo l’entropia genera evoluzione spirituale. Bisogna capire la storia di cui si è effetto per poterla cambiare. In tal modo, viene meno l’ambiguità che caratterizzava il primo film e che sembrava sposare l’ambiguità del Male, l’opportunismo come scelta di vita, anche se dobbiamo leggerla sempre in chiave ironica, provocatoria: era comunque una prospettiva, estetica e morale, molto diversa dal crudo realismo di racconti come Christiane F., noi i ragazzi dello zoo di Berlino, e segnalava già una diversa percezione del consumo della droga rispetto agli anni Ottanta, fenomeno diffuso a tutti i livelli sociali, non solo tra quelli marginali, e quindi più tollerato.

L’elemento nuovo di Trainspotting 2 è, con la consapevolezza, uno spiraglio di speranza, affidato soprattutto ai figli e alle poche figure femminili, capaci di interrompere la logica della ripetizione in cui si ripiega l’universo maschile. Possiamo interpretare nel senso della speranza anche il ritorno di Mark alla casa paterna: nello stesso tempo, tuttavia, il finale è contraddittorio come quello del primo film, dove il giovane scappa e trova nella fuga un modo per salvarsi e ricostruire una vita con nuovi obiettivi, sacrificando e tradendo gli amici.

Anche in questo caso c’è un nuovo inizio, segnato dall’abbraccio col padre e dalla riscoperta di un’eredità spirituale. Il ritorno nella camera rimasta la stessa può essere letto come una ripartenza, come un’occasione, ma si affaccia anche il dramma della circolarità, perché Mark deve rielaborare un fallimento e tornare sui suoi passi, nella sua camera che è anche un tunnel, una prigione: non sappiamo con certezza se prenderà le distanze dal suo passato o continuerà a proiettarsi nel fantasma dei suoi vent’anni. La sensazione è che il personaggio voglia recuperare una fedeltà a se stesso, che non si voglia arrendere e scelga davvero la vita, la libertà, contro l’autoritarismo delle macchine e una realtà disumana.

Trainspotting 2 ci parla quindi delle forme di resistenza in un’epoca sempre più complessa, dove la salvezza può essere solo individuale e passa attraverso la consapevolezza.