8 MARZO Addio a Gabriella Valera

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di Luisella Pacco

 

Gabriella Valera se n’è andata il primo di febbraio. Non ci si crede.

Non aveva mai nascosto la sua malattia. Ne parlava già tanti anni fa, nel 2009, in uno spazio web (davanti al mondo, dunque) indicando il primo giorno di cure come “il primo giorno del mio nuovo PROGETTO DI VITA”. Proprio così, maiuscolo.

E maiuscolo lo è stato davvero, il suo programma di studio, ricerca, volontariato, incontri, dibattiti, forum, conferenze, concorsi di poesia, dedizione per i giovani che arrivavano da tutto il mondo come figli amati; così maiuscolo e multiforme, che alla fine ci si dimenticava della sua lotta per la vita.

A vederla, scricciolo di donna con un’energia formidabile (“instancabile” era l’aggettivo più usato per definirla), era facile cadere nell’illusione che sarebbe sempre riuscita a farsi beffe del male, che ci sarebbe sempre stata.

Non è andata così.

Quando ho avuto la notizia, credo di aver usato la più sciocca delle formule. “Non ho parole”, “sono senza parole” ho commentato nei primi istanti, desolata. Solo poi mi sono resa conto che era un modo di dire inopportuno, lontanissimo da lei.

Gabriella aveva una passione prodigiosa per la comunicazione, il linguaggio, il dialogo inteso come elemento fondativo della società umana. Insegnava – e dimostrava con i fatti – che la parola genera, la parola crea.

“Non ho parole” è una frase che non le sarebbe piaciuta. Perché occorre averle sempre, le parole, e usarle con coraggio anche su ciò che fa più paura.

Proprio attorno alla parola ruotano i ricordi che adesso mi sovvengono.

 

Il primo è questo.

È il settembre 2019 e Gabriella è mia ospite in radio. Stiamo analizzando il suo ultimo libro di poesie, Scendevamo giù per la collina. Dopo i primi tre, che ha promosso poco, troppo presa da tante attività fino a dimenticarsi di se stessa, per questa quarta raccolta desidera un altro destino. Ne parla volentieri, lo presenta, lo sostiene.

Ebbene, in una poesia si fa cenno ad uno sparo. A me viene spontaneo pensare che sia metaforico e si riferisca all’imprevisto che esplode – come uno sparo, appunto – nel quieto vivere di ciascuno. Invece no, mi dice candida: in quella poesia si racconta proprio di uno sparo vero.

Leggendo il verso eponimo “scendevamo giù per la collina”, penso che sia una raffigurazione dell’amore. E lei di nuovo, con la sua voce sottile, mi spiega sorridendo che la collina è proprio una collina; era dietro la casa dove abitava da piccina.

Non ho più dimenticato quella lezione gentile di Gabriella: bisogna fidarsi delle parole. Prima di indovinarvi chissà quali reconditi segreti, occorre credere al loro primo e più semplice significato. Per le interpretazioni, spesso sdrucciolevoli, ci sarà tempo.

 

Un’altra cosa mi viene in mente…

Gabriella che, in una particolare lettura pubblica (ma lo ripeterà spesso), dice: “La poesia non si fa, non si scrive. Nella poesia si sta”.

Anche di questo conserverò il suggerimento. Stare nella poesia è un impegno, un modo di vivere, una disposizione dell’anima che va molto al di là dello specifico tempo d’orologio che si dedica ai versi creati o letti.

 

E un ultimo ricordo…

È l’anno scorso, la fine dell’estate. Gabriella mi scrive confidandomi le difficoltà, la battaglia ormai vana. Non teme di scrivere della morte, la guarda in faccia. Il tempo che rimane (“è davvero un tempo nuovo”, lo definisce) ormai lo si potrebbe quasi esattamente calcolare. “L’unica cosa che riesco a fare ancora bene è pensare, che non è poco!!!” conclude con tre punti esclamativi quasi di gioia. L’attività intellettuale le ha sempre dato gioia. Poi cambia argomento e si informa su una questione mia, con un’attenzione affettuosa che trovo eccezionale. Le rispondo quasi con imbarazzo. Come fa, mi chiedo, come fa a preoccuparsi per me, persino in un momento come questo?

Era generosa, ecco come.

Si dedicava agli altri con partecipazione viva, vera.

Dal primo di febbraio, siamo tutti un po’ più soli.