8 MARZO La signora Harrys

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Rileggere un testo a distanza di anni può condurre a inaspettate sorprese

di Luisella Pacco

 

Quando sono stata invitata a contribuire a questo numero speciale, ho avuto subito la sensazione che avrei preferito parlare di un personaggio letterario (ovviamente femminile) piuttosto che di un’autrice.

“Perché il personaggio è più vero” mi verrebbe spontaneo dire, se me ne chiedeste la ragione. Più fermo, più lucido, definito e incorruttibile dinnanzi al tempo, è il personaggio che ci pone le domande a cui via via risponderemo (noi, molto meno definiti, molto più corruttibili). La stessa lettura a distanza di anni può condurre a inaspettate sorprese.

Decisa dunque a parlare di un personaggio femminile significativo, ho iniziato a passare in rassegna le figure che mi erano entrate nelle vene, a partire dal primo lontanissimo incontro dell’infanzia con quella Jo March indelebilmente incisa in ogni bambina che ami scribacchiare, per poi approdare ad altre donne della letteratura ben più intense e poliedriche, incontrate via via nel corso della vita.

Non riuscivo a decidermi.

Un giorno – non so esattamente quando (credo sia accaduto in una mattina di sole, mentre pulivo le finestre con i guanti di gomma gialli) – mi è riapparsa lei: la signora Harris.

Mi perdonerete: non è un personaggio universalmente noto. Non è una Madame Bovary, per dire, né una Anna Karenina: non conosce grandi e disperati amori, né (buon per lei) muore suicida. Non è nemmeno una Elizabeth Bennet: la sua conversazione non è brillante, la sua mano non giocherella con il ventaglio. Non è Catherine Earnshaw: la sua anima non si aggirerà tormentata nella brughiera…

No.

Ada Harris è una domestica a ore e conduce una vita molto modesta. Si alza prestissimo al mattino e va a lavorare: apre porte di case che non le appartengono, sprimaccia cuscini su cui altri hanno dormito, spazza pavimenti che altri hanno calpestato, lava i piatti che trova sul tavolo o nel lavello, in una cucina di cui è solo temporanea custode. Spolvera ninnoli che non le ricordano nulla e fotografie di volti a cui non vuole bene.

È vedova, in là con gli anni. Ha un’amica con cui si concede qualche chiacchiera e l’acquisto comune di una schedina al concorso pronostici.

Ha un buon temperamento, questo va detto (il che rende il romanzo lieto e giocondo) ma certo la sua non sembra una vita molto invidiabile.

Erano trascorsi davvero tanti anni dal nostro primo incontro, cioè dalla mia prima lettura del romanzo di cui è protagonista, perciò è stato quasi commovente quel suo venirmi in mente, quel suo quieto bussare al vetro in quel giorno di sole.

Io da una parte della finestra e lei dall’altra – mentre il detergente appena vaporizzato ci colava in mezzo rigando di lacrime immaginarie il viso di ciascuna – ci siamo ritrovate.

Ada Harris mi si è imposta. Parla di me, mi ha sussurato guardandomi con i suoi occhietti vispi, parla di me nell’articolo per l’otto di marzo. Sono o non sono una donna, anche se umile e poco affascinante?

Le ho aperto il cuore: certo.

Vi parlo dunque di lei e di quel che le accade… In uno dei suoi mattini di lavoro, in casa di una certa Lady Dant, Ada Harris apre l’armadio e vede due abiti da sera. Uno le sembra fatto di cielo, è di chiffon color crema e avorio; l’altro è in taffetà, di un cremisi fiammeggiante. Sono firmati dalla maison Dior di Parigi, le spiegherà poi la superba lady.

«Mrs Harris non aveva mai visto niente di così bello. […] Assolutamente soggiogata, se ne stava lì a fissarlo appoggiata alla scopa, colle ciabatte ai piedi, la polvere tutt’intorno e i capelli pochi e radi che le cadevano sugli orecchi».

Da quel momento le nasce la smania di possedere un vestito così. Il buon senso e l’amica del cuore le suggeriscono che è una follia. Che cosa se ne farebbe? Occorre spirito pratico, perbacco! Se vuole lavorare indefessamente e risparmiare, non sarebbe più logico farlo per comprare qualcosa di utile, una nuova lavatrice o un cappotto più caldo?

Ma no, la signora Harris non cede: dopo molti sacrifici, va a Parigi e finalmente acquista il suo abito da sera.

Non lo indosserà mai, ne è consapevole. Le mancano i modi, il fisico, la gioventù, le occasioni mondane, il tipo di vita… Ma non importa. Ogni tanto, quando lo vorrà, lo guarderà incantata o se ne passerà un soffice lembo sulla guancia. Forse, una volta o due, oserà persino poggiarselo al petto, restando dritta in piedi davanti allo specchio.

Non chiedetevi cosa mai possa insegnarci la nostra dimessa signora Harris. Non siate snob, non siate crudeli.

A coltivare un sogno, anche se assurdo.

A toglierlo ogni tanto dalla sua gruccia.

A crederci, magari per un istante.

A saperlo riporre.

Non è abbastanza?

Ecco, questo articolo poteva più o meno chiudersi qui, e io non avrei rinnegato di un rigo il mio affetto e la mia ammirazione per Ada.

Credetemi, la signora Harris io l’ho amata. La sua vicenda mi pizzicava corde intime sconosciute. Quale malinconia, quale dolce struggimento mi dava immaginare questa donnina anziana che, di sera nella povera dimora, stringe a sé un abito sfolgorante, di una bellezza sideralmente lontana da tutto ciò che le appartiene.

L’ho stimata per decenni, l’ho citata spesso, l’ho fatta conoscere a chi non la conosceva (“ma sì, quella del romanzo di Paul Gallico, del 1958”), l’ho portata ad esempio come eroina della capacità di inseguire ostinatamente una propria chimera.

Ma…

Ma… – soffro nel confessarlo – non è più così.

Lo dicevo prima: la stessa lettura a distanza di anni può condurre a inaspettate sorprese. Quasi dolorose, come tutto quello che sgarbatamente ci denuda e denuncia il nostro cambiamento. Il quale ci si rivela non solo nell’immagine stanca sopra il lavandino, o nella riga di eye-liner imprecisa sulla palpebra non più tesa, o in una gonna divenuta troppo stretta o troppo larga.

Ci riconosciamo fragili e cangianti anche davanti ai personaggi che sentivamo così sapidi e d’improvviso non sanno più di niente; o viceversa, che non sapevamo comprendere e che repentinamente ci diventano familiari.

Questi confronti (il personaggio ci guarda, ci interroga…) ci dicono moltissimo su quello che eravamo e non siamo più; su quello che abbiamo vissuto e imparato; su quello che siamo diventati.

Ebbene, tra la signora Harris e me si è aperta una voragine. La me di oggi, intendo, non la ragazzina che ne leggeva per la prima volta le avventure, e nemmeno la me di dieci anni fa che di questo romanzo scriveva una recensione ancora convintamente entusiasta.

Cara Ada, le direi oggi, mi ha commossa ritrovarti ma nulla più di questo. Smessi i guanti gialli delle pulizie, mi sono seduta al computer e ho cominciato a riflettere su ciò che davvero penso di te.

Posso confidartelo, senza timore di offenderti?

La tua ossessione per Dior francamente mi imbarazza e quel che fai con i tuoi risparmi mi appare del tutto irragionevole.

Coltivare un sogno è cosa buona e giusta. Ma il sogno non può, non deve, essere un abito, men che meno un abito che non potrai neanche indossare.

Un sogno deve avere radici, concretezza, muoversi in un orizzonte di possibilità reale. Un sogno, Ada, deve somigliare a un progetto, a un proposito buono, a un’intenzione responsabile, a una fatica che ci renda migliori. Allora sì, ha senso consacrarvi il proprio tempo e il proprio denaro.

Ti ho voluto bene, dolce Ada, ma oggi, otto marzo, è davvero improponibile stare dalla tua parte.

Oggi, otto marzo, tutte le donne di buona volontà – che studiano lavorano creano inventano decidono sbagliano rimediano lottano, insomma vivono – mi azzannerebbero se scrivessi un articolo che parlasse bene di te.

E avrebbero ragione.