IL GRANDE CONTROVERSO
Un’incursione nella preistoria della critica

Quando l’Italia entra trionfalmente a Trieste nel novembre del 1918 il sangue ricomincia a circolare vivificando le fibre di una città che aveva vissuto gli anni di guerra in un gelido tempo d’attesa, nel quale le speranze degli uni, di chi “attendeva le navi” trovavano un preciso contrappeso nelle paure degli altri, di chi invece temeva la conquista italiana. Sventolavano nei cuori il tricolore, il vessillo con l’aquila bicipite o il tricolore slavo, secondo le attese e i desideri di ogni gruppo nazionale, ansioso per la “propria” vittoria. Situata nelle immediate retrovie, a non troppa distanza dal rumoreggiare della guerra, nella città maggioritariamente italiana si respirava un clima di sospetto, come in una terra occupata. Gli italiani della città parlavano la stessa lingua del nemico a Ovest, gli sloveni erano slavi del sud, come il nemico serbo. E tutto ciò a prescindere dalla probabilmente molto diffusa fedeltà dinastica agli Asburgo. Al pari della vita civile anche il dibattito letterario si era ibernato: la guerra aveva fermato l’orologio della storia intellettuale, o meglio lo aveva costretto a muovere gli ingranaggi al ritmo snaturante delle esigenze militari, e poco spazio era restato per le discussioni libere, i ripensamenti equilibrati, le sintesi imparziali. Per la coscienza italiana di Trieste era impossibile comunicare e fondersi con l’italianità d’oltre Isonzo, come liberamente nell’anteguerra. Separata da essa dai giorni di un maggio cupamente radioso, era un ramo morto di acqua impaludata. Solo dopo la metà del 1918, anche grazie alla nuova politica del giovane imperatore, qualcosa inizia a muoversi. Lo annuncia il ritorno in città dal confino austriaco Silvio Benco, il maggior intellettuale triestino, relegato a Linz dal 1916 al 1918, che può riprende con viva lena dal maggio 1918 l’attività pubblicistica. Fonderà all’indomani della “redenzione”, insieme all’amico Cesari La Nazione, giornale di breve vita che ebbe l’onore della collaborazione di Svevo. Avvertendo come prima, improrogabile esigenza quella di fare il punto su ciò che era accaduto nei lunghi anni della morte e dell’odio, valutando i meriti e riconoscendo i debiti verso chi era caduto per Trieste italiana, Benco dedica, nella rubrica I nostri morti della Nazione di domenica 22 dicembre 1918, una lunga riflessione a Scipio Slataper: «Con Scipio Slataper fummo noi, e furono parecchi amici nostri, quasi sempre in polemica», dichiara, «Egli non aveva ragione quasi mai e molti insorgevano amareggiati e inaspriti dalla sua violenza. […] Il processo che Scipio Slataper faceva della storia triestina nella Voce di Firenze mostrava, per quanto riguardava il passato e il presente, un errore originario che era nel temperamento. […] Nell’aspro soggettivismo lirico di un suo libro Il mio Carso egli giunse a tanto da mettersi nell’animo del contadino slavo incitato alla conquista di questa terra molle; e fece rizzare i capelli e il libro che era, nonostante tutto, geniale fu condannato. […] Quel partito nazionale di Trieste ch’egli spregiava come terra molle, provò d’essere stato di tempra tutt’altro che molle; bensì vigile, avveduto e prudente fra difficoltà di situazione quasi sovrumane». Duro giudizio, che echeggiava l’anatema gettato sui vociani da Ruggero Timeus, che, nell’articolo La missione austriaca di Trieste sulla nazionalista Idea nazionale del 30 gennaio 1913 aveva bollato il «masochismo filoslavo dei Vociani» (tracciando una scia che resterà bene incisa anche per gli anni a venire, se Tamaro, firmando la voce “irredentismo” per l’Enciclopedia Italiana, potrà scrivere di uno spirito anti-irredentistico dei Vociani). Slataper dunque, benché scrittore geniale, un illuso, un impulsivo, forse un rinnegato. Che paga con la morte sul campo un pegno di espiazione. Immediata la reazione di Giani Stuparich, che reduce da una lunga prigionia portava nel cuore l’inconfessato tormento del sopravvissuto, avendo lasciato dietro di sé nell’inferno della guerra il fratello e l’amico. Insieme a Guido Devescovi prende la parola a favore di Slataper firmando un articolo su un foglio effimero, il Grido di Libertà del 28 dicembre 1918 (seguiranno a breve distanza, nel 1919, due altri interventi minori sullo stesso tema, sull’Azione di Pola e sull’Alabarda di Trieste, un lungo articolo – non pubblicato – destinato al Resto del Carlino, e nel 1920 un contributo, Scipio Slataper scrittore apparso sul Piccolo della sera); «Silvio Benco ci aveva promesso», scrive dunque Stuparich, «di dire degnamente d’uno dei più grandi figlioli che Trieste abbia avuto, appena fossero note le circostanze circa la sua morte. Meglio sarebbe stato forse accontentarsi d’una cronaca pura e semplice, senza ricordi e spunti polemici d’oltre tomba». E prosegue: «C’è tempo ancora; c’è ancora tanto tempo; verrà il giorno in cui la luce sfolgorerà anche negli occhi più miopi e la tomba del Podgora brillerà come un faro. Ma che il critico ufficiale, l’uomo di maggior tempra artistica, insistesse ancor oggi, ad adagiarsi nel giudizio comune, dopo il vaglio di tante coscienze e la prova del fuoco di tante volontà e intelligenze – insistesse, diciamo, ad adagiarsi nel giudizio comune, dando un colpo al cerchio e un altro alla botte – ci sembra enorme. Silvio Benco scrive che la pagine de Il mio Carso dove Slataper si immedesima (come ogni poeta con la sua creatura) nello sloveno incitato all’invasione della nostra città, fece “rizzare i capelli”. Ma, santo Dio, seguitate a leggere! E capirete che quella immedesimazione è un “incubo”, e invece di sentirvi rizzare i capelli sentirete disgropparvi il cuore a quel grido d’amore che segue, a quella fede che erompe dalle parole: “oh Italia, no, no”, allorché in un’estasi di poesia rampollante dal tormento, si afferma la bella chiara civiltà italiana (“perché io sono più di Alboino”) contro la barbara e giovane forza dello sloveno, la speranza, la sicurezza che con tutta la mollezza presente (di allora) la solarità dell’anima e della storia latina sarebbe prevalsa nel mondo come è sempre prevalsa. E poi no, no. Scipio Slataper non era un’anima febbrile e tumultuosa, torbida e burrascosa, sì da essere messo accanto a qualche figura dello “Sturm und Drang” – era freddo nella sua febbre, era sereno nel suo tormento – era profondamente umano e generoso nella sua severità ed era umile nel suo individualismo. Egli non “doveva” trovare quiete nella morte, egli che anelava al lavoro umile, quotidiano, fecondo nella sua città natale; a cui serbava un amore puro e ardente per l’anima in tormento che gli aveva dato: un amore così grande, così vero che le piccole menti e i piccoli cuori nella loro campanilistica nullità mai hanno compreso e sospettato. Scipio Slataper è stato, oltre che un grande poeta, un grande maestro di verità e di coerenza, insieme con Ruggero Fauro, l’unico che sotto un altro aspetto gli può stare accanto, è stato e dev’essere il simbolo luminoso della nostra terra riconquistata col sangue. Noi – suoi amici e suoi compagni di fede – che gli combattemmo al fianco nella santa guerra d’Italia – gli chiediamo scusa di rompere il silenzio della sua tomba in quest’ora – ma era nostro dovere, nostro sacrosanto dovere, gridare alto e forte, una volta per sempre: O anima nostra – verrà la tua ora /E la cecità sarà allora malvolere». Come si vede, ancora al di qua di un vero giudizio critico sullo scrittore e sull’opera, il dibattito annaspa nel circolo vizioso dei rancori e delle accuse, e di converso, della rivendicazioni di una limpida fede patriottica. In realtà, i due antagonisti che avevano contrapposto giudizi così differenti sulla posizione nazionale di Slataper probabilmente ancora non sapevano che proprio nel 1916, come sùbita eco della morte del volontario triestino, più di una voce si era autorevolmente alzata a rivendicare il valore dell’uomo, dello scrittore e dell’opera, fondando in effetti, con quelle note e quelle segnalazioni, una tradizione interpretativa. Qualche anno più tardi, nel 1922, avrebbe visto la luce la grande monografia di Stuparich su Scipio Slataper (Scipio Slataper, edizioni della «Voce», 1922, nelle citazioni che seguiranno edizione 1950), dedicata ad Elodì, nel segno delle esperienze comuni vissute dalla generazione della guerra e dai triestini di Firenze, dove Stuparich ribadiva e ampliava la sua visione della collocazione politico-ideologica dell’amico, esaltando nell’uomo il patriota di tempra sincera, l’erede di Guglielmo Oberdan, e nello scrittore colui che aveva elevato alle altezze della poesia le ambivalenze, le contraddizioni, il dramma romantico in breve, dell’anima triestina; un denso volume che è insieme ritratto e auto-ritratto, analisi di un uomo e studio d’un ambiente. Slataper vi figura come un intellettuale irrequieto, che scava senza mai trovar pace, sempre intento a scrutarsi dentro, incline a riconoscersi ora nello specchio di Hebbel (dal cui lato torbido, commenta Stuparich, si lascia affascinare), poi in quello, ben altrimenti severo, di Ibsen, per il quale, frase che era piaciuta al triestino, «scrivere è tenere severo giudizio sovra se stessi»; intuitivo e appassionato, teso a conquistarsi una quadratura etica e un’identità umana e politica iscritta nella categoria del fare e inserita, nel segno di contenuti morali e valori nazionali, in una particolare condizione collettiva, il microcosmo unico e speciale della sua città. Una Trieste dove in un primo momento, ancorché partecipe della breve avventura intellettuale del Palvese, si sente a disagio, per la ristrettezza d’orizzonti e la penuria di stimoli, ma che resta il punto focale della sua elaborazione intellettuale. Emigra quindi a Firenze per ossigenarsi e crescere, dove si unisce al gruppo della Voce (ma «nel 1909 far parte del movimento vociano era indice di lesa italianità per Trieste e d’inferiorità per certi professori universitari», p. 78), il laboratorio intellettuale e morale in cui opera attivamente per l’Italia e per la propria città, con l’obiettivo di far diventare «l’irredentismo giuliano, da stato d’animo pieno di contraddizioni, oscillante tra fatalismo e calcolo, coscienza ricca e dibattuta» (p. 255). Lo stesso punto d’avvio, esagera Stuparich, da cui partono Vivante e Fauro, e che contribuisce a porlo, già nel 1912, in una prospettiva interventista («Lo Slataper era interventista già nel 1912» – p. 269). Visione falsata, certo, ma utile per rivendicare a Slataper lungimiranza e granitica coerenza di ideali. Criticamente egli si mette alla prova nel saggio su Ibsen («Tre sono gli elementi che concorrono a formare questo libro così denso e così intricato […] critica, umanità, arte» – pp. 218-219), artisticamente, dopo la grande rinuncia vociana («in più d’uno dei vociani sentivi una rassegnazione di sacrificarsi a un compito inferiore ma necessario, avendo o rimandato di dedicarsi o addirittura rinunciato all’arte» – p. 55), ne Il mio Carso. L’apoteosi letteraria, nell’esplosione irrefrenabile eppure esteticamente dominata da traboccanti energie vitali. Di crisi in crisi, in un contatto con la natura di volta in volta più intenso, profondo, consapevole, il protagonista autobiografico del diario lirico («siccome ogni periodo concretizza in uno speciale, predominante genere d’arte la sua visione interiore, il nostro genere sarà probabilmente il diario» aveva affermato Slataper in una Lettera ad Ardengo Soffici del 11.IV.1911, cfr. Epistolario, a cura di Stuparich, Milano, Mondadori, 1950, pp. 268-9) va conquistandosi una soglia di più alta e attiva moralità: «egli si salva e ritorna, non più Pennadoro sfolgorante, bramoso di rinsanguare il mondo con la sua poesia, non più l’apostolo che insegnerà il dovere morale, ma uomo semplice fra gli uomini, uomo che sa che la vita è pena ed amore, sacrifizio e lavoro» (p. 127). I contrasti allora si risolvono, le contraddizioni si sciolgono, anche quella costitutiva dell’anima e della città: «sempre il contrasto tra il Carso e la città, fra lo slavo e l’italiano; ma questa volta la conciliazione drammatica è trovata: nell’anima triestina, nel poeta della giovane Italia » (p. 122). «Le novità e la freschezza del Mio Carso», conclude Stuparich, «sono in questa vergine e barbara italianità che si esprime artisticamente per la prima volta» (S, 146), senza zavorra di tradizione e senza remore di pregiudizio, eppure con altissimo risultato d’arte. Trieste ha finalmente la sua voce, all’altezza della letteratura della nazione-madre. Quando Carlo Delcroix, il grande invalido che si era speso negli ultimi anni della guerra nell’oratoria di trincea, medaglia d’argento al valore e quindi, cedendo alle lusinghe, deputato fascista fino al 1943, sarebbe venuto a Trieste a celebrarne i martiri, era proprio a questa precoce interpretazione che si sarebbe appoggiato, per pronunciare la sua grande orazione del dicembre 1922 al Teatro Verdi di Trieste. Un discorso di accesissimo timbro retorico in ricordo di Scipio Slataper in cui avallava in sostanza l’interpretazione di Stuparich (si legge in C. Delcroix, Scipio Slataper, Giorgio Berlutti editore, “I discorsi del giorno”, Roma, s.d., quindi in Id., Il sacrificio della parola, Firenze, 1924): Slataper il più fedele erede di Oberdan, proto-martire triestino della causa italiana. A parere di Delcroix fin delle sue origini Slataper, dal cognome slavo, avrebbe testimoniato «la potenza d’innesto dell’idea latina su tutte le razze» (p. 37), un’idea che, interpretata nella sua forma più nobile, divenuta un ideale altruistico e pugnace lo motiva a Firenze, per odio ai compromessi e al tiepido impegno dei patrioti parolai, a «prendere posizione contro l’irredentismo considerato nella sua degenerazione magniloquente» (p. 45). Come un gentiluomo d’altri tempi «attacca partiti e uomini della sua città non per astio né per diffamazione, ma per contrasto di idee, per differenza di metodo, e se l’avversario è degno assale, ma ammira, combatte ma rispetta» (p. 46). E se il capolavoro dell’artista è Il mio Carso, se quello del pensatore l’Ibsen, il capolavoro dell’uomo intero, il coronamento della vita «doveva scriverlo col sangue sulla pietra dura d’un monte perché nessuna immagine è più viva di una ferita, nessuna cantica più splendente di un rogo» (p. 52). Alla fine anche Benco, conservatore rigido ma non miope, si sarebbe convinto; nel trascorrere degli anni, nel clima quieto (dopo la grande fiammata antisocialista e antislava del fascismo degli anni Venti) di una Trieste rasserenata nell’abbraccio ormai indistricabile con la madre patria, venivano a cadere le urgenze polemiche e tornava a splendere con luce limpida (in campo letterario almeno, perché in politica, lo sappiamo, era tutt’altra cosa) lo spirito di ragionevolezza e di equilibrio. A partire dal volumetto Trieste, che Benco pubblica da Nemi, a Firenze, nel 1932, anche Slataper viene finalmente accolto nel canone dei grandi triestini, nel segno di una letteratura di impegno, che coniuga arte e vita. E comincia da allora, si potrebbe dire, la moderna fortuna critica dell’autore del Mio Carso. Di cui, nei primi anni Trenta, oltre che Benco, scriveranno, per dire dei maggiori, Gargiulo e Bo. Rimane importante però, e pressoché dimenticata, nel percorso che abbiamo frettolosamente tracciato, la fase del 1916, quella che, come abbiamo accennato, contribuisce a porre le basi interpretative, contribuendo ad arricchire la visione che Stuparich concretizza nella citata monografia del 1922. Messe a fuoco, come ci si poteva attendere, prevalentemente di area vociana. Inaugura la serie un ricordo commosso di Sibilla Aleramo sul numero 2 del 1916 dell’Illustrazione italiana (lo si può leggere in rete nell’edizione digitalizzata della rivista). Personalissimo e intimo, com’è logico, visto che scaturisce dalla penna di una poetessa che si nutre di ricordi e di impressioni, tipicamente femminile si sarebbe detto una volta («continuo a parlar di me, ma è il solo modo ch’abbia io per dire ch’egli è stato un vivo»). Aleramo racconta dei suoi incontri con Slataper, della lettura che egli le fece, commossi lui e lei, del Mio Carso appena terminato (un ricordo analogo emerge dagli scritti di Stuparich e ci lascia immaginare il giovane scrittore felice ma insicuro quanto al valore dell’opera intento a saggiarne la tenuta in lunghe letture agli amici), della presentazione della giovane sposa, dopo il matrimonio con “Gigetta” che avrebbe inaugurato una nuova fase della vita di Slataper. Nulla della “triestinità” la incuriosisce, il problema etnico le è estraneo, il conflitto commercio-cultura sfugge alla sua comprensione, e lo scrittore è interpretato nel segno di un’erompente vitalità che si complica però di «un senso nodosamente tragico del dovere (altri direbbe: un senso kantiano)». Sotto questo profilo, un paragone che nessuno ha più ripreso, simile a Weininger; meno romanticamente auto-distruttivo («la forza geniale travolgente»), ma, per effetto di contrastanti origini, con un’«identica qualità della coscienza». Più ricco di qualità interpretative, ovviamente, il Pennadoro di Prezzolini, sul numero del 29 febbraio 1916 della Voce. «Era uno scrittore», afferma secco Prezzolini, e di lui bisogna parlare; dell’amico, fra amici, e più tardi. Succhi polemici non mancano in queste pagine vociane: contro gli intelletti piccini che affiancarono nella condanna Irredentismo Adriatico e il Mio Carso, contro chi voleva bandire, nel corso della guerra anti-tedesca i grandi autori germanici, e fra di essi anche Hebbel e Goethe, così cari a Slataper. Sul piano del bilancio intellettuale, ammette Prezzolini, ci sarebbe troppo da dire, e a proposito dell’uomo etico basterà suggerire che «c’era in lui del barbaro, ma del barbaro raffinato, c’era del kantiano, ma un kantiano con mille finestre sul mondo. Leggete il Mio Carso per favore prima di parlare». Il Mio Carso, appunto. Liquidato l’Ibsen con due parole («la sua critica è quasi sempre oscura»), è sul diario lirico che Prezzolini vuole soffermarsi: «Il Mio Carso, come tutte le opere vive e grandi, non si rassegna ad entrare in una definizione. È un’autobiografia. Ma è anche un mito. La realtà e l’ideale vi stanno a così stretto contatto, ed in tale pienezza che finiscono per combaciare perfettamente. […] Il Mio Carso è dunque il mito di Trieste. Vi è concreto il travaglio di quella città, crogiolo di razze, per preparaci una provincia italiana; v’è quella lotta del mercantilismo europeo più spatriato col giovanile patriottismo più radicato; v’è il contrasto fra la mondialità dei suoi moli aperti come braccia alle merci di tutti i climi e il provincialismo dei viottoli vecchi dove gli indigeni dibattono i problemini locali; v’è la modernità dei sensi e la barbarie della natura. […] Il Mio Carso è una vittoria latina. La misura, l’effusione calma e solare, la pienezza dell’espressione, la vittoria dell’arte sopra la natura: ecco le qualità della prosa di Slataper in questo libro, rispetto a tutto ciò che lo precede. E il libro stesso non fu scritto forse come catarsi d’un grande dolore?». Prezzolini sa di dir poco, per l’impressione ancora fresca di una perdita dolorosa, che è di cattivo aiuto per bilanci ponderati. Appena un esitante tastare il terreno. Resta la consapevolezza limpida e sicura che l’uomo e l’opera non saranno dimenticati: «Slataper non è di quegli uomini che non gli bisogna morire perché ci si occupi di loro. Ci sarà ancora tempo di tornare su di lui. Il suo nome è legato ad un importante problema italiano ma vivrà soprattutto per un’opera d’arte e per l’esempio dato». Curioso unicum della primissima critica slataperiana, segue di poco il Pennadoro di Prezzolini il fascicolo monografico di Venezia Giulia, Scipio Slataper, l’eroe del Carso, 9 aprile 1916, a firma di Vittorio Cuttin (con disegni di Yambo). Fuori schema il pamphlet (lo si può leggere on line, www.europeana19141918.eu/it/…/BibliographicResource_300000587470…), quanto il suo autore, un poligrafo geniale e corrosivo (giornalista, narratore, poeta), dalla scrittura duttile e brillante, un uomo, ingiustamente dimenticato, in lotta contro tutti i luoghi comuni del suo tempo, attratto dall’universo della stampa scandalistica per cui possedeva la mano giusta, ostile tanto ai socialisti che all’élite liberal-nazionale di una città che lascia nel 1914 per rientrarvi dopo la vittoria e morirvi nei primi anni Venti. Slataper è ai suoi occhi, «un forte lupo carsico in mezzo alle pecore infiocchettate della politica nazionalista», insieme «spirito ribelle triestino e anelito insurrezionale sloveno» che guarda a un futuro italiano della città, ma nel segno dell’irredentismo culturale: massimo rispetto cioè per il conterraneo sloveno, e insofferente invece, senza remissione, per «la grande mascherata politico-mercantile» di un irredentismo tale solo di nome, perché in realtà prono, per amore del fiorino, alle esigenze del potere imperiale. Da Firenze, prosegue Cuttin, Slataper ha l’ardire di «scuotere le colonne di cartapesta dell’Arcadia triestina», tanto letteraria che politica, ed è, nel periodo della neutralità, un «fervido agitatore irredentista» che invoca la guerra per amore di giustizia per i popoli e per le classi. Ferito nelle prime settimane di guerra trascorre in Italia una breve convalescenza, e qui ha modo di incontrare «la vacua accademia della politichetta triestina trasferita in riva al Tevere», gli irredentisti «fighi e zibibe» come li aveva definiti sulla Voce, intenti a disquisire sul futuro delle terre irredente ma ben guardandosi dallo scendere in trincea. Il messaggio umano e politico di quest’uomo sta tutto nel Mio Carso, dove si rivolge allo sloveno, al paziente e laborioso contadino dell’altipiano, come ad un fratello: «non a invadere la città per smania di conquista e di usurpazione incita Slataper lo slavo, ma ad accostarsi allo spirito della città, a vincere la ritrosia e la timidità dell’intelletto, ad inurbare la sua anima perché la città è civiltà e la città dovrebbe essere la giustizia, l’elevazione, la purificazione degli umili, incatenati alla roccia del Carso per pregiudizio». Una lettura provocatoriamente sottile e particolarmente fuori schema, nel segno della duplice appartenenza di Slataper al mondo italiano e al mondo slavo, e che pare ispirarsi, guardando più indietro che all’irredentismo, alla profezia di un futuro adriatico di marca italo-slava espressa dal dalmata Tommaseo. Chiude la carrellata dei contributi più significativi del 1916, la nota lusinghiera di Papini sul Mercure de France nell’ottobre del 1916: poche parole, per ricordare la morte di uno scrittore italiano, che, «per quanto un po’ tedesco di cultura e slavo di razza» (un fatto che sembrava denunciare il suo cognome, cosa che ha molto colpito tutti i primi critici, in difficoltà a capire il carattere sfuggente e non rivelatore in senso nazionale dell’onomastica, soprattutto in terre di confine) «era soprattutto italiano: ha scritto belle pagine italiane ed è caduto per l’Italia». Il Mio Carso, in primo luogo, «una specie di autobiografia fisica e cerebrale di un giovane robusto e sognatore che si compiace a posare da barbaro e che fa sbocciare da un’aridità di base dei bei ricordi e delle enfatiche divagazioni» (si legge on line, gallica.bnf.fr/ark:/12148/cb34427363f/date). Insomma, uno schieramento di amici che, sommessamente quasi, prendono posizione per l’uomo e per l’opera. Nostalgia per gli anni eroici del cimento vociano, si dirà, e inveramento di quell’antica solidarietà; ed è forse vero. Soprattutto però la preoccupazione che il fuoco della guerra non cancelli un’impronta che merita di restare.

di Fulvio Senardi