Ciceria tra storia, geografia e memoria

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“La Ciceria va da Opicina a Montemaggiore”

In mezzo a tante frontiere travolte dalla storia, la Ciceria restava lì, unico e autentico spartiacque di civiltà, tra mondo mediterraneo e Danubio

Se Joyce ritornasse qui oggi ritroverebbe un po’ di quell’atmosfera che gli ispirò l’Ulisse.

di Pierluigi Sabatti

 

Nella mia memoria di bambino, cresciuto negli anni Cinquanta a San Giacomo, quartiere operaio di Trieste, i Cici sono i “carboneri”. Sior Pepi era infatti un carbonaio grande e grosso che aveva la rivendita in via dell’Istria di fronte alla scuola Bergamas, che non era stata ancora costruita. Ricordo l’antro buio che mi faceva un po’ di paura quando accompagnavo la mamma che andava a comperare il carbone per lo spàrgher, la cucina a legna e a carbone che costituiva l’unica fonte di riscaldamento dell’epoca, in case dove soltanto davanti allo spàrghert si stava caldi d’inverno, mentre le altre stanze erano gelide.

Sior Pepi se ne stava in genere seduto sulla porta dell’antro e si alzava a fatica per servire i clienti; parlava un linguaggio particolare che era una mescolanza del dialetto triestino veneto col dialetto triestino sloveno.

Un giorno chiesi alla mamma perché sior Pepi parlava strano e lei mi rispose: “Perché el xe cicio”. Mi sembrò buffo perché ciccio lo era, ma nel senso fisico del termine, e continuai a chiedere.

La mamma mi spiegò sbrigativamente che i Cici erano della gente che abitava nel sud dell’Istria, vicino alla “Barcinka”, così la mamma definiva la zona interna dell’Istria, delimitata dalla strada che porta a Fiume. Zona dalla quale proveniva la famiglia di suo padre, slovena. Di qua della strada verso Fiume i “Barcini” e di là della strada verso Fiume i Cici, che parlavano una lingua diversa.

La mamma aggiunse che i Cici per vivere fabbricavano il carbone, cioè mettevano la legna sotto la terra e la facevano bruciare lentamente in modo che si formasse appunto il carbone. Io non capii molto dell’operazione, e neanche mio padre, tecnicamente più preparato della mamma su questi argomenti, mi fece capire. Però mi raccontò che i Cici erano famosi perché non sapevano andare per mare: “Cicio no xe per barca” mi disse ridendo e io immaginai il sior Pepi che faceva affondare sotto il suo peso una barchetta come quelle che avevo visto sul Canale.

Crescendo mi accorsi che il proverbio era molto usato in città per dileggiare una persona incapace di svolgere un compito che le era stato affidato o semplicemente perché goffa o impacciata.

Un detto popolare che indica la diffidenza verso il mare di un popolo che vive lontano dalla costa, ma c’è anche un’interpretazione più alta, come suggerisce Claudio Magris nel ’95, in un articolo sul Corriere della sera, e cioè che il detto testimonia la salvaguardia della loro identità, che i Cici hanno mantenuto testardamente nelle loro vallate, nei loro boschi e nei loro villaggi. Identità, sottolinea Magris, che “sul mare infedele e magnanimo facilmente si trascende e si perde”.

Il mio primo incontro con i Cici nel loro territorio avvenne quando andammo a visitare il minuscolo paese natale del mio nonno materno che è Mali Loce, vicino a Slivja. Paese talmente piccolo che non ha neanche una trattoria. L’appetito ci riportò sulla strada per Fiume e da lì in Ciceria e precisamente a Seiane dove ci fermammo a mangiare.

Paolo Rumiz, nel suo viaggio a piedi da Trieste a Cherso, pubblicato sul Piccolo nel 2002, scrive: “La Ciceria, dicono i geografi, va da Opicina al Montemaggiore e le sue brughiere nascondono cippi di confine dell’Austria-Ungheria e della Repubblica di Venezia, dell’Italia e del Gma, della Slovenia, della Croazia e della vecchia Jugo. In mezzo a tante frontiere travolte dalla storia, la Ciceria restava lì, unico e autentico spartiacque di civiltà, tra mondo mediterraneo e Danubio”.

In effetti nel primo incontro con quella landa poco popolata, a tratti petrosa, ebbi l’impressione di un mondo lontano, di un mondo a sé.

Per conoscere quel mondo ci volle una bella mostra realizzata a Trieste nel 2007 a cura dell’Associazione culturale italo-romena Decebal.

Mostra che servì a sfatare parecchi pregiudizi, a partire l’abusato “Cicio no xè per barca”, che viene, in parte, smentito da documenti i quali attestano la loro presenza come fuochisti su navi italiane e dal linguista e filologo rumeno Sextil Puscariu, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, che, fra i mestieri istrorumeni, elenca anche quello di marinai e fuochisti sulle navi. Sarebbe interessante sapere quanti Cici parteciparono allo sciopero dei fuochisti del Lloyd del 1902, represso nel sangue, una pagina vergognosa dell’Austria Felix. Del resto erano terribili le condizioni di vita del proletariato triestino, di cui i Cici erano parte: l’industrializzazione richiedeva il contenimento dei salari per battere la concorrenza, l’impegno di lavoro che superava le nove-dieci ore al giorno, con cottimi ancora più pesanti di 13-14 ore, senza giornate festive. Situazioni che minavano la salute dei lavoratori, i quali non potevano permettersi né un vitto, né una casa decente.

Non di solo carbone vivevano i Cici, ma anche con il commercio dell’aceto, che acquistavano in varie località istriane e rivendevano, grazie a una patente di Maria Teresa, nell’ambito di tutto l’impero. Stando a Pietro Kandler, vissuto nell’Ottocento, essi trasportavano il sale dalla costa ai paesi dell’interno: “…il cicio davasi sovratutto al trasporto del sale dall’Istria marittima al Carnio”.

Comunque le attività principali erano l’allevamento del bestiame, la pastorizia e lo sfruttamento dei grandi boschi per produrre il carbone che portavano, assieme a legna da ardere, anche a Trieste. Il trasporto veniva fatto con carri trainati da cavalli o da forti muli e la merce scaricata nei magazzini, oppure venduta direttamente su strada, al grido di: “Carbuna! Carbuna!”.

Ma si spingevano anche più lontano a vendere i loro prodotti: latte, formaggio, lana e manufatti preparati con il legno, soprattutto cerchi e doghe per botti. Attività importantissima all’epoca quando le botti erano, mutatis mutandis, l’equivalente degli attuali container ed è interessante rilevare, sempre stando al Kandler, l’obbligo imposto ai bottai di uscire dalla città vecchia e di trasferirsi nell’erigendo Borgo Teresiano nella via appunto dei bottai (oggi via San Nicolò) che quindi un po’ di Cici avrà ospitato. Secondo un calcolo fatto dal commerciante Giacomo Balletti nel 1756 erano necessarie almeno 156 mila doghe per il commercio triestino. Grazie alle capacità acquisite con queste attività e questi commerci, i Cici furono i trasportatori sulle difficili e spesso inesistenti strade balcaniche.

I momenti politici difficili, come la conquista napoleonica e la prima guerra mondiale, si rifletterono sulla loro economia e per sopravvivere non disdegnarono di praticare il brigantaggio e il contrabbando.

Un capitolo molto interessante della storia dei Cici è quello narrato nell’Itinerario in Istria, dello studioso romeno Joan Maiorescu, vissuto nella prima metà dell’Ottocento, che fornisce una ricca documentazione sulla lingua e sulle tradizioni di questo popolo.

Maiorescu narra della consuetudine di dare in adozione agli istrorumeni, tramite l’istituto dei poveri, gli orfanelli triestini, che definisce “i frutti del peccato dei plutocratici triestini”. Nel tempo furono assegnati circa trecento bambini a famiglie affidatarie, le quali ricevevano un contributo con il compito di allevarli fino alla maggiore età; molti ragazzi rimasero in quei luoghi sposandosi e acquisendone la cultura. Dopo la metà dell’Ottocento tale uso andò scemando.

Quest’episodio illumina due aspetti del rapporto dei Cici con Trieste: il primo è la loro presenza, attestata da Ireneo della Croce che nella sua Historia nella quale lo storiografo carmelitano afferma che i Cici si erano stanziati alla periferia della città.

Il secondo aspetto è quello dell’accoglienza che i Cici offrivano a questi “frutti del peccato”, che dimostra come questa gente sia ben inserita nel tessuto sociale cittadino tanto da vedersi affidati dal Comune questi bambini. Certo non lo facevano per generosità o per colmare vuoti affettivi. Parliamo di un’epoca in cui i sentimenti verso i fanciulli erano diversi da quelli che manifestiamo oggi. Lo facevano perché nelle famiglie contadine c’era sempre bisogno di braccia e perché ricevevano un sussidio di mantenimento. Il fatto che molti bambini rimanessero con le famiglie “affidatarie” anche dopo la maggiore età significa che comunque avevano trovato più calore nelle modeste case dei villaggi della Cicceria che negli enormi e tristi stanzoni della Casa dei poveri (nel comprensorio ove oggi c’è l’Itis) dove peraltro dovevano condividere gli spazi con i vecchi e i malati.

Quale era la Trieste che accoglie i Cici nel XIX e XX secolo?

È la città “quasi esclusivamente dedita alla mercatura” come rileva lo storico della medicina Arturo Castiglioni per lamentare il fallimento del Giornale medico e letterario di Trieste, una delle prime pubblicazioni in italiano pubblicato nel 1790, opera di Benedetto Frizzi, che chiude dopo quattro numeri. Nonostante la breve esistenza l’iniziativa denota il destarsi di interessi culturali in città che troveranno soddisfazione nel Gabinetto di Minerva creato da Domenico Rossetti nel 1810 e da tutta la serie di associazioni, musei e sodalizi culturali che si svilupperanno successivamente.

La città crescerà durante il XIX secolo e i primi quattordici anni del XX in maniera straordinaria. A porre le basi del suo sviluppo fu l’istituzione del porto franco nel 1719 per volontà di Carlo VI e la politica di sviluppo economico e sociale perseguita da Maria Teresa che favorì l’edificazione del borgo che porta il suo nome. Alla fine del Settecento Trieste raggiunge i 30.000 abitanti: circa sei volte la popolazione che ci viveva cent’anni prima. Il notevole sviluppo demografico della città è dovuto, in massima parte, all’arrivo di numerosi immigrati provenienti per lo più dal bacino adriatico (istriani, veneti, dalmati, friulani, sloveni) e, in minor misura, dall’Europa continentale (austriaci, ungheresi) e balcanica (serbi, greci, ebrei). Tra i quali i nostri cici, come già detto.

Con alterne vicende Trieste si sviluppa fino a raggiungere nel 1910 i 240 mila abitanti, più di quanti ne conti oggi. L’immagine che Trieste offre all’epoca è quella di un mosaico. Un mosaico di etnie.

La prima guerra mondiale segna il grande cambiamento. La città perde il suo carattere multietnico e comincia l’epoca degli esodi: prima i tedeschi e i cechi e poi molti sloveni e croati, soprattutto delle classi più colte, lasceranno la città quando il fascismo porta all’estremo l’opera di italianizzazione: si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Tra il 1919 e il 1945 sono stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste. Una situazione che si manifesta anche nelle aree istriane abitate dai Cici, come l’Arsia che interessa al regime per le sue miniere, forse meno conosciuta per la marginalità del territorio.

Ma Trieste ha sempre bisogno di energia per lavorare e per riscaldare le case e il carbone dei Cici è sempre richiesto e così si superano le altre tragedie del secolo breve: la seconda guerra mondiale, l’occupazione nazista, la guerra partigiana. E i Cici sono sempre presenti in città, operosi e riservati. Con il passare degli anni sia sior Pepi che i suoi colleghi (erano numerose le rivendite di carbone in città) cominciano a cambiare attività: arriva il cherosene e le nuove stufe, che peraltro scaldano veramente tutto un appartamento, estromettono i romantici spàrgher. I Cici non fabbricano più il carbone che non si vende quasi più, si mettono a distribuire taniche di cherosene e altri prodotti per il riscaldamento, molti degli antri bui chiudono, altri cambiano fisionomia e i Cici si disperdono nella città che oggi presenta una composizione etnica simile a quella degli inizi del ‘900: oltre a italiani e sloveni finalmente pacificati che si integrano nel rispetto delle rispettive culture e memorie, ci sono le comunità serba, croata, rumena, moldava e islamica che raggruppa tante nazioni e si tornano a sentire per strada e sugli autobus tante lingue diverse. Se Joyce ritornasse qui oggi ritroverebbe un po’di quell’atmosfera che gli ispirò l’Ulisse.