Non è D’Annunzio

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di Roberto Curci

 

è la prima volta che mi capita di dispiacermi (oh, solo un po’) di ignorare Facebook e tutto ciò che di ampiamente zozzo ci ruota attorno. Succede dal momento che ricevo da molti di quelli che in FB sguazzano spiritose vignette (fotomontaggi, in sostanza, di vari autori) concernenti l’assai discussa “installazione” scultorea fatta collocare dall’amministrazione comunale triestina in un’ubicazione che più centrale non si potrebbe immaginare, dunque con duplice arroganza. Massì, mi riferisco alla cosiddetta Statua del Vate e al putiferio, perfino diplomatico, che ha innescato, ma anche – nella fattispecie – alla ridda di buffe reazioni informatiche di quanti hanno interpretato la decisione del Potere per quello che propriamente è: una provocazione all’insegna del “me ne frego” e del “io tiro dritto”.

Ci mancava l’urgente rialzo lapideo, deciso in extremis onde non far sgambettare a vuoto il Poeta, per eccitare il latente “morbin” di tanti triestini, anche di quanti, per buone ragioni anagrafiche, non hanno mai sentito parlare del Marameo! E dunque giù con battute (“El Vate curto”) e demolitorie immagini messe on line (godibile il piccione impegnato nella lettura di un manuale che insegna – in dodici lezioni – a defecare sulle statue cittadine, e su quella in particolare). Insomma, sono bastati 382 mila Euro (comprensivi di mostra e statua) per far ridacchiare o sghignazzare una città mica tanto incline all’humour. Ne valeva la pena.

E comunque, scommettiamo? Tra un mese o poco più nessun indigeno – salvo i turisti perplessi – farà più caso a quello sconcertante primingresso nell’arredo urbano. Ci si farà l’abitudine, anzi il callo, e a nessuno verrà più in mente di paragonare il reggi-piedi del “Vate curto” ai tacchi con rialzo di un certo Cavaliere, che a suo tempo fecero ugualmente sorridere.

A ben pensarci, e per tacitare le anime belle che, al contrario, continuassero a indignarsi e a brontolare, basterebbe far finta che. Ricordate Lucio Battisti e quella sua splendida canzone, che diceva: “Ti stai sbagliando, chi hai visto non è, non è Francesca….”? Ecco. Ecco la geniale pensata, ad uso e consumo soprattutto dei visitatori invaghiti del mito della Trieste letteraria. Quella statua NON rappresenta chi si vorrebbe rappresentasse, bensì un placido, anonimo ometto contemplativo, un ometto calvo e di mezza età, profondamente immerso nella lettura di un libro, ma anche – a seguire – dei tanti impilati lì accanto: un emblema, insomma, un simbolo, un’incarnazione dell’inossidabile e perenne vocazione culturale della città di Svevo, Joyce, Saba, Slataper e chi più ne ha, più ne metta.

Basta far finta che. “Ti stai sbagliando, chi hai visto non è, NON E’ D’ANNUNZIO…”.