CINEMA – Tre manifesti a Ebbing, Missouri

locandinaTre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, USA, GB)

di Pierpaolo De Pazzi

Valutazione 3 / 5

«Stuprata mentre stava morendo – E ancora nessun arresto – Come mai, sceriffo Willoughby»: così fa scrivere su tre cartelloni pubblicitari Mildred Hayes, che, dopo l’assassinio della figlia, vuole avere giustizia. Il messaggio è diretto allo stimato capo della polizia locale. Il suo vice Dixon è un uomo immaturo, razzista e aggressivo: lo scontro è inevitabile.

Questo film mi ricorda due pellicole che ho amato molto, Il dolce domani ( The Sweet Hereafter, Atom Egoyan, 1997, tratto dall’omonimo romanzo di Russell Banks) e La promessa (The Pledge, Sean Penn, 2001 tratto dall’omonimo romanzo di Friedrich Dürrenmatt). Segreti inconfessabili, piccoli paesi, rimorsi che costringono a vendette impossibili, storie di vite ai margini… ma questa volta la magia non scatta, e resta qualcosa di poco convincente, probabilmente legato alla sceneggiatura originale di Martin McDonagh, regista sempre molto compiaciuto di se stesso (suoi In Bruges – La coscienza dell’assassino del 2008 e 7 psicopatici del 2012). Qui il ritmo forsennato porta la vicenda a una serie di colpi di scena che hanno dell’artificioso, a tratti dell’inverosimile (ma piuttosto prevedibile), senz’altro del poco fluido.

In particolare il personaggio del sospettato dell’omicidio appare un espediente narrativo non bene integrato, un depistaggio offerto allo spettatore, ma troppo annunciato, a partire dalla sua immotivata comparsa sulla scena fino all’epilogo, in qualche modo preannunciato da una frase dello sceriffo Willoughby.

Le parti più convincenti di questa fredda pellicola sono tutte le interpretazioni: nel suo consolidato buon binario quella della Mc Dormand; quella del figlio, Lucas Hedges (che avevamo già apprezzato in Manchester by the Sea); di Woody Harrelson nei panni dello sceriffo Willoughby; di Peter Dinklage, uno dei concittadini (maltrattati) di Mildred Hayes e un palmo sopra tutti lo straordinario Sam Rockwell. Il suo personaggio di Dixon, aiutante dello sceriffo, è il vero protagonista dinamico del film; che col suo percorso da rancore e odio idiota, attraverso l’esplosione della rabbia, a una forma di redenzione, riesce a smuovere persino la monolitica (e un po’ piatta) figura di Mildred Hayes/Mc Dormand, cieca e sorda a tutto ciò che non sia rimorso/dolore/vendetta e lontanissima dal considerare le esigenze degli altri, a partire da quelle di suo figlio.

Piace del film il suo bel finale aperto, senza soluzioni moralistiche ma aspramente poetico.

Mi piacciono anche i dialoghi, che meritano al film la classificazione di commedia nera, che gli viene attribuita. Un solo esempio, un’amara battuta dello sceriffo Willoughby a Mildred: «Se cacciassimo tutti quelli con tendenze vagamente razziste, rimarremo con tre poliziotti, che comunque odiano i froci: che possiamo farci, giusto?»