Tra irredentismo, Resistenza e Autonomismo

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Pubblicato Il bibliotecario di Ventotene, un saggio di Roberto Spazzali sulla vicenda biografica di Mario Maovaz, fucilato dai nazi-fascisti il 28 aprile 1945

di Luca G. Manenti

 

Irredentista, mazziniano, massone, buddista, resistente, autonomista: la personalità di Mario Maovaz (Spalato 1880-Trieste 1945) è stata eccezionale e insieme rappresentativa di una minoranza di antifascisti che, partendo da un sostrato di patriottismo democratico, nella fase finale dell’occupazione nazi-fascista prospettarono per la città alabardata la soluzione municipalista, un programma all’insegna del motto «né Italia né Jugoslavia» fatto proprio dal movimento Trieste libera (sorto su stimolo di Alberto Paulin, direttore dell’omonimo giornale), inviso tanto agli slavi, che temevano fosse un cavallo di Troia del ritornante e mai domo fascismo, quanto ai settori della resistenza italiana indisponibili a rinunciare aprioristicamente al porto adriatico.

Roberto Spazzali (storico, insegnate, pubblicista, già direttore scientifico dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia) ricostruisce, in un volume scandito in ventisei capitoli e corredato da un’appendice fotografica proveniente dall’archivio dei Maovaz, le vicende del capofamiglia e dei suoi circuiti d’appartenenza in decenni cruciali per le sorti d’Europa attraverso una fitta trama di fonti, dai quaderni-diari del figlio alle carte della Corte d’Assise rintracciate presso l’Archivio di Stato di Trieste, dalle principali testate del periodo, di non sempre facile reperimento, ai fascicoli custoditi dall’Istituto regionale per la storia della resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, dai fondi dell’Archivio Centrale dello Stato alla storiografia più aggiornata sul confine orientale d’Italia, sulla massoneria e sul fascismo.

Figlio di padre ignoto e madre croata che gli diede il cognome, di sentimenti italiani ma cosmopolita e poliglotta (le sue passioni: «Mazzini, l’Inghilterra, la massoneria», p. 99), anticonformista e visionario, spirito irrequieto, autodidatta e imprenditore di successo, viaggiatore per le lande egiziane e russe, costretto all’esilio prima a Ponza, dove s’affiliò a una loggia isolana (a dimostrazione che, scomparsa nel 1925 la massoneria italiana, non scomparvero i massoni), poi a Ventotene, ivi divenuto bibliotecario e amico di noti oppositori del regime, Maovaz è stato, prima di tutto, un incallito, perseverante cospiratore. Un informatore lo definì elemento «disgregatore non avendo egli una linea ben chiara del suo indirizzo politico, complottatore provetto avendo svolto intensa attività irredentistica nella Dalmazia al periodo dell’Impero austro-ungarico» (p. 90). Se l’accusa di confusione ideologica all’indirizzo di Maovaz denotava, da parte dell’agente che ne aveva stilato il profilo, scarsa capacità di penetrarne la psicologia, la taccia di rivoluzionario professionista si attagliava benissimo allo spalatino.

Ed è esattamente sulla dimensione carbonara e segreta del sovversivismo sia repubblicano che delle frange dell’indipendentismo e del federalismo triestini (con il recupero del magistero cattaneano quale piattaforma teorica di partenza e l’organizzazione pratica di un comitato postosi in concorrenza con quello di liberazione nazionale) che si concentra in special modo l’autore, restituendoci uno spaccato dettagliato – nomi, colloqui, spostamenti, finanche orari e indirizzi ‒ dell’attività nascosta di coloro che, a rischio della vita, ordirono trame contro i manutengoli di Mussolini e gli occupanti tedeschi. Un mondo sotterraneo abitato da piccoli e grandi eroi combattenti per la libertà, certo, ma anche segnato da delazioni, tradimenti, ricatti, doppi giochi per la ricerca di vantaggi personali a scapito della salvezza comune, per arricchirsi o, più prosaicamente, salvare la pelle.

L’autore traccia con cognizione di causa, documenti alla mano, la ragnatela informativa estesa sull’intera città, facente capo all’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza diretto da Giuseppe Gueli, che per ottenere informazioni ricorreva alla tortura e allo stupro. In quest’ambiente pericoloso, fatto di sacrifici quotidiani, di sotterfugi per sottrarsi all’occhiuta vigilanza delle forze al comando del braccio di destro di Gueli, il giovane e spregiudicato Gaetano Collotti (nel dopoguerra medaglia di bronzo al valor militare «per essersi particolarmente segnalato – recita l’encomio ufficiale – in una rischiosa azione contro partigiani nemici»), Maovaz si mosse guidato sì dalla consapevolezza che per la causa democratica valeva la pena lottare, ma anche da un idealismo sconfinante nell’ingenuità, che lo condusse all’arresto e, il 28 aprile 1945, due giorni prima dell’insurrezione generale di Trieste, alla morte per fucilazione.

Simpatetico, in linea di massima, con sloveni e croati, sebbene convinto assertore dell’indipendenza giuliana e contrario, pertanto, all’eventuale accentramento di potere a Roma, egli si districò, come poté e finché poté, in un ginepraio di spie e provocatori, di militanti di svariati colori politici, di religiosi e laici, di borghesi e militari, di comunisti italiani e jugoslavi intenzionati a dire l’ultima parola sul destino della città di San Giusto e della Venezia Giulia quando sarebbero stati cacciati i tedeschi.

Almeno cinque, ricorda Spazzali, erano le ventilate ipotesi, in quel frangente d’acuta tensione, che postulavano uno scardinamento dei nessi tra la regione e l’Italia: Trieste porto internazionale, città autonoma e libera, stato indipendente, sbocco marittimo dell’Austria, tassello di una confederazione balcanica come auspicato dagli jugoslavi. Trieste libera e i suoi membri di spicco (oltre a Maovaz e Paulin, Ferruccio Lauri e Frane Tončić) furono percepiti, in simile contesto, di volta in volta come strumenti da manipolare per obbiettivi d’altra natura o, nel peggiore dei casi, inaccettabili ostacoli alla realizzazione di un cambio radicale degli assetti statali, incurante di tradizioni consolidate, patrimoni storici e identità culturali. Maovaz era diventato, insomma, una pedina scomoda, scomodissima, tanto che Spazzali lancia il sospetto – giustificato – che la sua morte sia stato un «delitto politico consumato all’ultimo istante e fatto passare per una “comune” rappresaglia» (p. 308), allo scopo d’eliminare un autorevole portavoce dell’opzione indipendentista.

Il ruolo della Chiesa metodista, formata da pastori affiliati alla libera muratoria e in contatto con gli anglo-americani (Luigi Girardi), alcuni vicini alla teosofia (Luigi Podestà), altri invischiati nelle spire dell’apparato repressivo fascista (Giorgio Baccolis), con cui scesero a patti per calcolo o per necessità, costituisce il fulcro tematico di capitoli di grande interesse, che gettano nuova luce sulla sfaccettata realtà politico-religiosa dell’epoca. Le missioni e gli abboccamenti tra Milano, sede del CLN Alta Italia, e Trieste, vengono descritti con abbondanza di dettagli, mentre pagine di forte impatto emotivo sono dedicate alle torture subite in prigione da Maovaz con la moglie e i due figli.

L’autore scava nelle fonti con acribia, intreccia situazioni apparentemente lontane ma collegate da individui usi a spostarsi su scenari diversi, illustra aneddoti particolari senza tralasciare la loro collocazione entro il quadro generale, offrendo spunti di ricerca originali a chi intenda approfondire il complesso, articolato argomento della resistenza a Trieste e delle sue molte anime. Il lettore può così osservare riflessa nella biografia d’un singolo la biografia d’una città, i drammi di un’area turbolenta in un arco d’anni denso di violenze e, insieme, di speranze nel futuro. «Vendicateci» furono le ultime parole di Maovaz, che Spazzali adopera, a mo’ di suggello, per il titolo dell’ultimo capitolo di un’opera corposa, folta di episodi misconosciuti, intensa e vibrante.