Biografie malate

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Casi di straordinarie sofferenze e di terapie raccapriccianti

Le disgraziate vicende dei sei fratelli Galvin, di Rosemary Kennedy e di Lucia Joyce

di Gabriella Ziani

 

Volevano incarnare il sogno della perfetta famiglia americana uscita piena di ottimismo dalla seconda guerra mondiale. Fra il 1945 e il 1965 i coniugi Donald e Mimi Galvin fecero dodici figli, allevati come soldatini nella grande casa in Colorado, e incoraggiati a praticare sport e musica, in cui peraltro molti di loro eccellevano. Il sogno via via si trasformò in un incubo senza fine e la famiglia divenne il più clamoroso caso nel campo degli studi sulla malattia mentale, e dagli anni ’80 oggetto di analisi genetiche: sei dei dodici, l’uno dopo l’altro, manifestarono gravi disturbi mentali e comportamentali per i quali fu formulata la diagnosi di schizofrenia. Entrarono e uscirono dagli ospedali psichiatrici, imbottiti dei farmaci allora disponibili, che causavano gravi effetti collaterali. Erano violenti, farneticanti, ribelli, bulli, drogati, a volte pericolosi, o con tendenze al suicidio, o finivano in carcere per azioni abnormi e asociali. Uno commise omicidio-suicidio con la sua ex compagna, uno beveva e picchiava la moglie, il primogenito aveva deliri religiosi alternati a scoppi d’ira e di abulia e impotenza, uno arrivò a oltre venti ricoveri, due morirono anzitempo per le conseguenze indotte dai medicinali. Più tardi emergeranno, da questo grumo spaventoso di sofferenze, incesti tra fratello malato e sorelline inermi, e stupri di gruppo, e la pedofilia del prete di fiducia, e infine anche gli abusi subiti in gioventù dalla madre da parte del patrigno. Forse per questo l’indomita super-mamma non vedeva, non capiva, sperava, non indagava?

La scienza non s’interessava a questi drammatici segreti, ma studiava i Galvin per arrivare a comprendere l’origine del male sconosciuto: genetico, biologico, oppure “ambientale”, cioè causato da una famiglia distorta e soprattutto da una madre in apparenza devota, ma al fondo dura e militaresca?

È la storia appassionante che Robert Koller racconta sulla base di documenti e interviste in Hidden Valley Road. Nella mente di una famiglia americana, con il supporto e la collaborazione dei quattro fratelli e delle due sorelle (le ultime nate) rimasti indenni dal male, ma indelebilmente feriti dalle paurose esperienze giovanili. Svettano su questo marasma doloroso i genitori, il padre Donald Galvin, dapprima impegnato nella Marina e quindi nell’Aeronautica e in importanti enti governativi, e  la madre Mimi, che tutto sopporterà e minimizzerà per schivare da se stessa lo stigma manicomiale, l’ombra scura della colpa, e conservare il più possibile l’apparenza, la sua dignità familiare, il suo tenace sogno, i suoi ragazzi.

Ma se le vicende dei singoli sono di per sé un diario dettagliato di penosissima gravità, Koller è molto bravo nel disteso e ricco racconto sottotraccia incentrato sulle indagini scientifiche, a partire dal dibattito che mise l’uno contro l’altro Freud e Jung, nella diatriba se la schizofrenia fosse frutto di natura o di cultura. Per un periodo prevalse la tesi delle «madri schizofrenogene», identificate da un profilo arrogante e tirannico, emotivamente fredde, pronte a trascurare i disagi dei bambini e degli adolescenti per non affrontare il crollo della presunta perfezione familiare che era il bene supremo di cui avevano un bisogno profondo. La stessa Mimi aveva alle spalle una disgraziata storia familiare, la tribù di figli per cui lavorò indefessamente era la sua fonte di recupero. Ammettere la colpa della madre come origine di malattia era come distruggere la propria intima essenza, il progetto di vita, un fallimento non gestibile. Specie quando la carriera del marito la portò a frequentare una cerchia di alto profilo sociale.

Per decenni continuarono studi, ricerche, teorie, anche la genetica muoveva i primi passi, i Galvin accettarono sempre di essere analizzati nella speranza che si arrivasse a capire l’origine del disastro familiare. Quando finalmente, a inoltrati anni Duemila, una volta decrittato l’intero genoma umano, si intravide lo spiraglio – la schizofrenia poteva insorgere a causa di micromutazioni di numerosi geni che avevano importanza nel far funzionare i neurotrasmettitori – e si individuarono soluzioni farmacologiche non tossiche, si misero di mezzo le potenti case farmaceutiche che per i più vari motivi rifiutarono sperimentazione e produzione.

Nel frattempo i ragazzi Galvin venivano spediti non in cliniche private, per loro troppo costose, ma nell’enorme manicomio statale della zona, il Pueblo, che ospitava fino a 5000 malati, ed era noto soprattutto perché curava la schizofrenia con la terapia dello shock insulinico (che induceva un breve coma) e con un potente farmaco che verrà somministrato ai sei fratelli in dosi massicce, assieme a un mix di altri preparati. Negli intervalli di lucidità, dopo un calvario di anni, dissero che li aveva aggravati proprio la medicina con le sue tossiche pasticche. Uno di loro sperimentò anche l’elettroshock che sembrava la nuova soluzione, ma inutilmente.

Negli anni Trenta, ricorda Koller,  nei manicomi americani il trattamento era disumano, si somministravano ai malati cocaina, manganese, olio di ricino, sangue animale, olio di trementina. Poi arrivò la sperimentale lobotomia, la recisione dei nervi dei lobi frontali, di cui fu vittima una sorella del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, Rosemary, nata nel 1918 con un deficit cognitivo a causa del parto troppo ritardato. La famiglia (nove figli), che assai più dei modesti Galvin aspirava alle vette del potere economico e politico, traslocò la figlia imperfetta in una serie di scuole sempre più speciali, ma da adulta, non avendo il necessario autocontrollo, fu vista come un pericolo e infine il padre decise autonomamente di sottoporla a questa feroce pratica ancora sperimentale. Rosemary, deprivata di ogni forza fisica e mentale, trascorse tutta la sua restante vita in una clinica, dove morì a 86 anni. La vicenda è stata raccontata da Simona Capodanno e Marina Marazza in Niente lacrime per Rosemary. Diventato presidente, John Kennedy emanò subito una legge a favore dei disabili e altre encomiabili azioni misero in campo Ted, senatore del Massachusetts, e la sorella Eunice: tentativi di riparazione.

Ma quanto a drammatiche storie di famiglia & follia, la più complicata se non la più triste è quella di Lucia Joyce, la figlia costernata dell’autore di Ulisse e di Nora Barnacle, stretta nelle spire delle dinamiche – queste sì folli, tra traslochi di casa e nazione, mancanza di soldi, malattie, libri “impossibili” di ardua gestazione – dei genitori e del fratello George, in precario equilibrio tra genio e dissolutezza. Lucia, nata a Trieste nel 1907, si era avviata con entusiasmo a una carriera di danzatrice ma le remore dei genitori non le consentirono di spiccare il volo autonomo che l’avrebbe allontanata anche da un ambiguo rapporto col padre. I due erano legatissimi, e di Joyce si dice che trovasse ispirazione nella figlia, perciò le sue ribellioni e deviazioni caratteriali non solo lo ferivano e disperavano come genitore, ma intaccavano inconsciamente anche una delle sorgenti creative. Lo racconta molto bene Luigi Guarnieri in Il segreto di Lucia Joyce. Costantemente malato e a caccia di soldi che continuava a spillare da amici e sostenitori, anche per pagare cliniche costosissime («per tentare di curare sua figlia ha speso mezzo milione di franchi», e siamo negli anni Trenta), Joyce tentò di tutto per Lucia, anche inutili sedute con Jung. La ragazza diventava sempre più devastata e colmata di farmaci, sfiorò diagnosi di ebefrenia, schizofrenia, dementia praecox, patì la camicia di forza e solo all’ultimo evitò il coma insulinico. Restò anche lei ricoverata, «oltre il mondo dei vivi», e nessuno andò più a trovarla, morì nel 1956 a 79 anni.

E se l’avessero lasciata libera? E se la povera Kennedy avesse trovato un riparo? E se i Galvin fossero cresciuti in un ambiente diverso? Domande che restano domande, ai margini di una sofferenza mentale che gode oggi di trattamenti sanitari potentemente rivoluzionati rispetto alla cultura concentrazionaria, ma che pure esiste, e continua a interrogare, turbare, e forse spaventare.

 

 

Robert Koller

Hidden Valley Road

Nella mente di una

famiglia americana

trad. di Silvia Rota Sperti

Feltrinelli, Milano, 2022

  1. 448. euro 22,00