La mula Molly parla in triestin

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La ricchezza di un dialetto che esprime la vitalità di un popolo dalla multietnicità secolare, ben esprime l’esuberante multiformità di una donna come Molly

di Sabrina Di Monte

 

«Si perché nol ga mai fato prima una roba compagna come domandar de aver la colazion in leto con un per de ovi de quela volta al hotel City Arms co el fazeva finta de star distirà con la vose de maladiz come se el fusi sua maestà per farse piàser da quela vecia carampana dela siora Riordan che el pensava de averla inzinganada e no la ne ga lasà nianca una flica tuto xe nda in messe per ela che caia…».

 

Questo è l’incipit già esilarante (riderete e vi emozionerete di più se lo leggerete tutto) del “monalogo” di Molly Bloom, traduzione fedele dell’ultimo e più celebre capitolo dell’Ulisse di James Joyce (El monalogo di Molly, traduzione in triestino dall’inglese di Fulvio Rogantin, edito dalle librerie triestine Ubik, Drogheria 28 e Minerva, pp 64, 2020).

La storpiatura del titolo è spiegata nell’introduzione del traduttore: monalogo e non monologo perché «mona nei suoi diversi significati è centrale in questo capitolo ed è perciò un ulteriore omaggio a Joyce, al suo giocare con le parole, unirle, modificarle».

L’Ulisse è un testo densissimo e molto complesso, uno dei lavori della letteratura mondiale più difficili da tradurre in assoluto. Si conclude con un lungo monologo interiore nel dormiveglia: la ridda di pensieri scorre libera nella mente di una donna rivelandone la vita e la genuina schiettezza. Per rendere questo “flusso di coscienza” il più naturale possibile, Joyce evita i segni di interpunzione ma anche l’uso dell’apostrofo, unendo le parole come nel caso di we’ll che diventa well, creando spesso un’ambiguità di significato.

Vediamo come un brano con queste caratteristiche sia stato tradotto dall’inglese all’italiano da Giulio de Angelis (1960), Enrico Terrinoni (2012), Mario Biondi (2020); e dall’inglese al triestino da Fulvio Rogantin (2020).

 

«…well soon have the nuns ringing the angelus theyve nobody coming in to spoil their sleep except an odd priest or two for his night office the alarmclock next door at cockshout clattering the brains out of itself let me see if I can doze off 1 2 3 4 5…» (Joyce).

 

 

«tra poco le monache suoneranno l’angelus non c’è nessuno che vada a disturbare i loro sonni se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di quelli accanto al primo chiccirichì si fa uscire il cervello a forza di far fracasso guardiamo un po’ se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5…» (de Angelis).

 

“tra un po’ le suore suonano il loro angelus non anno nessuno a disturbargli il sonno tranne ogni tanto un prete o due per la funzione notturna la sveglia alla porta accanto il canto del gallo ti fa uscire di cervello con tutto quel casino fammi vedere se riesco ad appisolarmi 1 2 3 4 5…» (Terrinoni).

 

«…presto avremo le suore che suonano l’angelus che non hanno nessuno che va lì a rovinarci il sonno salvo un paio di preti per il servizio notturno o la sveglia nella casa accanto al canto del gallo che si sfracassa fuori il cervello fammi vedere se riesco a fare un pisolino 1 2 3 4 5…» (Biondi).

 

«…tra un poco le monighe sonerà el angelus no le ga nisun che ghe rovina el sono solo qualche volta uno o do preti per la messa de note o la sveia de la porta vizin el canto del galo te manda fora dei copi vedemo se rivo a indormenzarme un do tre quatro zinque…» (Rogantin).

 

Fulvio Rogantin non è un traduttore di professione; nelle sue brevi note introduttive sembra poi avere con l’italiano e la sua sintassi lo stesso difficile rapporto che aveva Svevo, e naturalmente Zeno, che del dottor S. dice: «Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto» (La Coscienza di Zeno).

Nella sua traduzione però, Rogantin sembra invece trovarsi molto a proprio agio, così da far apparire il risultato, come scrive Edoardo Camurri nella sua prefazione, “naturale e necessario”. Prefazione divertente e affettuosamente impietosa, come solo un amico si può permettere di scrivere, nella quale Camurri ricorda anche che Joyce in famiglia parlava triestino.

Lo diceva anche la figlia di Svevo, Letizia: i figli di Joyce «nacquero a Trieste, frequentavano le scuole italiane; quando andarono via, parlavano tutti il dialetto triestino.» (Da un’intervista del 1982).

E anche lo scriveva: ad esempio, nel 1921 da Parigi, Joyce invia a Svevo una lettera che comincia in italiano e finisce in triestino, dove chiede all’amico scrittore d’inviargli gli appunti che aveva lasciato a Trieste, che si trovavano nella casa di via Sanità 2 «prospettante i postriboli di pubblica insicurezza” e che erano contenuti in un pacco «di tela cerata legata con un nastro elastico, di colore addome di suora di carità». Appunti che gli sarebbero serviti «per l’ultimazione del mio lavoro letterario intitolato Ulisse ossia Sua mare grega». E concludeva:

 

«Dunque, caro signor Schmitz, se ghe ze qualchedun di Sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando quel fagotto che non ze pesante gnanca per sogno parchè, la mi capisse, ze pien de carte che mi go scritto pulido cola pena e qualche volta anca col bleistiff quando no iera pena. Ma ocio a no sbregar el lastico parché allora nasserà confusion fra le carte. El meio saria de cior na valigia che si pol serrar cola ciave che nissun pol verzer. Ne ghe ze tante di ste trappole da vender da Greinitz Neffen rente al Piccolo che paga mio fradel el professore della Berlitz Cul…».

 

Proprio a Trieste, un esempio di come l’Ulisse si presti ad essere tradotto e soprattutto letto ad alta voce in triestino, fu la lettura-spettacolo del celebre “funerale mancato”, nel sesto capitolo dell’Ulisse, da parte del bravissimo Maurizio Zacchigna durante il Bloomsday del 2012: James Joyce a Trieste. Quando el mulo Zois parlava in triestin.

Volendo essere il più possibile fedele al dialetto di Trieste del tempo di Joyce, per la sua traduzione Rogantin ha tenuto come riferimento il Dizionario-vocabolario del dialetto triestino e della lingua italiana di Ernesto Kosovitz , «l’unico vocabolario del dialetto triestino esistente a quei tempi», e per ulteriori spunti il sito http://www.atrieste.eu.

Il risultato è una traduzione che, rimanendo fedele all’originale, ne rafforza la vitalità e l‘espressività, grazie a termini anche tedeschi e slavi che nei secoli sono andati ad arricchire il triestino differenziandolo sempre di più dai dialetti parlati nel territorio contiguo corrispondente all’attuale Veneto.

Ecco allora parole come slaif (dal tedesco “freno” ma usato in triestino per dire “prostituta, poco di buono”; sluck (sempre dal tedesco, per dire “sorso”); kukuruz (granturco, dal serbo-croato).

La ricchezza di un dialetto che esprime la vitalità di un popolo dalla multietnicità secolare, ben esprime l’esuberante multiformità di una donna come Molly, così carnale, imprevedibile, così parodisticamente agli antipodi da Penelope e dalla fissità del suo ventennale ruolo di regina fedele.

Molly è un caleidoscopio di colori, odori, suoni e sapori. Per Joyce il suo sonniloquio era il clou del romanzo e Molly stessa la rappresentazione della “immortalità della materia” in contrasto alla sfibrata umanità di Leopold, suo marito, e alla cerebralità dell’amico Stephen.

Ci congediamo dall’Ulisse dopo un bagno rinvigorente e rinfrescante nell’energia vitale di Molly, nella sua capacità di dire alla vita, così com’è, come ci viene offerta:

«…and yes I said yes I will Yes».

Che nella traduzione di Rogantin diventa «…e si go dito si voio Si».